Cultura e Spettacoli

Nelle piazze italiane la gioventù è eterna

Nelle architetture accoglienti d'un tempo si ferma il Tempo. Mentre noi rincorriamo un pallone

Nelle piazze italiane la gioventù è eterna

La piazzetta centrale di Zoagli fa venire in mente i racconti illustrati di Richard Scarry, quelli con Sandrino e Zigo Zago, che tutti i bambini del mondo conoscono bene. Quello di Scarry è un mondo fatto tutto di cose familiari, dove tutti si conoscono o sembrano conoscersi da sempre, e così è per questa e altre piazze ben riuscite, che riescono a includere nell'estetica generale anche gli aspetti meno belli, come il palazzo delle poste o l'incombente ponte della ferrovia.

Di forma rotonda, circondata quasi tutta di vecchie case liguri gialle, rosse, bianche che si arrampicano una dietro l'altra come spettatori di una partita di calcio, piena di panchine di pietra e di ferro battuto, questa piazza mi invita a sostare qualche minuto per ascoltare il suo racconto, che è il racconto di tutte le piazze.

Alle sette di sera, ecco le mamme, in costume e pareo, rientrare con i piccoli nel passeggino per la veloce spesa prima della cena. Ci sono persone più anziane, gente del posto, che nel loro ligure strascicato discorrono del tempo che farà domani standosene in piedi davanti al bar, prima o dopo l'aperitivo.

Ci sono altri attraversamenti, ragazze irrequiete al telefono, ragazzotti in marcia verso destinazioni segrete, uomini che parlano tra loro di soldi, donne assorte davanti allo smartphone, che sorridono lusingate, si mordono il labbro, scrivono freneticamente, talvolta arrossiscono. Si immaginano storie, ma sono storie generiche, buone per tutti, è raro immaginare una vera storia, di quelle capaci di inchiodare il protagonista come una farfalla esotica dentro una teca.

Eppure siamo tutti farfalle esotiche.

Il tempo scorre in modo diverso per ciascuno. Le mamme si affrettano verso gli ultimi doveri della giornata, i vecchi indugiano con il sole che non scende, gli uomini indaffarati ignorano la circostanza astronomica perché, attaccati ai loro telefoni, ne inseguono un'altra.

A dominare tutta la scena, però, c'è un gruppo di ragazzini, sui dieci-dodici anni che, sistemate quattro paia di infradito, due a due, ai due lati della piazza, ne hanno fatto due porte e adesso, quattro da una parte e quattro dall'altra, stanno per cominciare la loro partita.

Sarà una finale di Champions? Di Coppa del Mondo?

Prima viene, naturalmente, il rito della formazioni. I due capitani, i due maschi alfa, un lungagnone bruno e un biondino con la faccia da furbetto e gli occhi buoni, se la giocano a pari e dispari. Il vincitore sceglie per primo, poi l'altro, e così via fino a che le formazioni sono pronte.

La partita comincia, ed è subito evidente che, escluse le due porte, per quei ragazzini il campo è il mondo stesso. Per loro i passanti, le mamme con i passeggini, gli anziani, le panchine, i vicoli laterali sono altrettanti elementi della partita. Il campo di calcio non ha confini veri e propri, ci si rincorre dovunque, si dribblano i passanti, la partita si sviluppa dietro le porte, che sono il solo punto fermo di tutta questa festosa narrazione.

Colpisce la sicurezza con cui, in mancanza di un arbitro, i giocatori concordano sulle decisioni: «alto», «palo», «gol» sono altrettante affermazioni certe. È sera, dopo una giornata di mare, e non c'è voglia di litigare (cosa che in altre circostanze costituirebbe un ingrediente quasi necessario).

Oltre all'arbitro che non c'è, e al fallo laterale o di fondo inesistenti perché il campo non ha confini, diverse regole vengono ignorate in quanto inessenziali, come quella del fuorigioco. Esistono solo i piedi, un pallone e la piazza, cioè - appunto - il mondo.

In tutto questo c'è qualcosa che sembra precedere la nascita del tempo. Mi vengono in mente certe storie antiche, come quella riferita da Giorgio de Santillana in Fato antico e Fato moderno (ed. Adelphi) dove un ragazzino marina la scuola e se ne va a pescare al laghetto. Poi, stanco, si addormenta accanto a un albero e sogna di trovarsi su una nave e di assistere a una partita in cui alcuni pirati usano palle di cannone al posto delle bocce. Quando il ragazzino, ridestatosi, torna al paese non lo riconosce più: scopre di aver dormito per trecento anni.

Ecco, il biondino tira, ma ci sono troppe gambe in mezzo: il pallone di gommapiuma s'impenna, piroetta, rimbalza male, viene deviato due o tre volte e alla fine supera la linea di porta: è gol. Il lungagnone impreca, ma deve riconoscere che è gol. Danzando e strizzando l'occhio all'amico sconfitto, il biondino spara un bel «tranquilli ragazzi, tutto calcolato».

E io ripenso a quando di anni ne avevo anch'io dieci o dodici, e giocavo esattamente come loro, e anche noi formavamo le squadre a pari e dispari, anche noi segnavamo le porte con zaini, giacche o infradito a seconda della stagione, anche noi facevamo a meno dell'arbitro, anche per noi il fuorigioco e il fallo laterale non esistevano, anche per noi il campo di gioco e il mondo erano la stessa cosa. Stesse parole, gol, alto, palo, tutto calcolato. Stesse danze di esultanza, stessi tuffi esagerati dei portieri, a metà tra l'emulazione del campione visto in tv e la felicità del cane che, liberato dal guinzaglio, corre e si rotola per terra. E, soprattutto, stesse parole.

Certo, loro sanno usare l'informatica meglio di me, frequentano i social senza sospetti, mentre io ero quasi un contadinello. Eppure eccoci tutti uguali, negli anni, nei decenni, come se fino a una certa età il tempo non esistesse, come se fino alla soglia dell'adolescenza fossimo tutti dèi, tutti risparmiati dalla colpa di Adamo, tutti innocenti, crudeli ed eterni. Il Tempo arriverà, corromperà, invecchierà, ma c'è un'epoca in cui il tempo non esiste, in cui un pallone e quattro infradito formano la struttura, il principio di ragion sufficiente del mondo.

Ma perché avvenga tutto questo forse ci vuole anche una piazza, una bella piazza italiana, edificata, come tutte le piazze più belle, da uomini che avevano saputo conservare nel proprio sguardo la memoria di quell'età dell'oro senza arbitri, senza falli laterali o fuorigioco, di quella pausa divina, di quella sospensione provvidenziale che anticipa il Tempo e lo rende, forse, più accettabile.

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