Cultura e Spettacoli

Le notti insonni in cui Stalin si appellava a Dio e rimpiangeva lo zar

Le notti insonni in cui Stalin si appellava a Dio e rimpiangeva lo zar

Stalin continuava a camminare avanti e indietro e l'orchestra a suonare.

Poi si sarebbe trovato un mezzo, una medicina, per procurare l'immortalità, magari solo a lui... No, non c'era abbastanza tempo.

Come poteva abbandonare l'umanità? A chi lasciarla? Avrebbero fatto confusione, commesso degli errori.

Va bene. Avrebbe edificato monumenti in proprio onore, sempre più imponenti, sempre più alti (la tecnica si sarebbe sviluppata). Erigere un monumento sul Kazbek e uno sull'Elbrus, in modo che la sua testa si trovasse sempre più in alto delle nuvole. E a quel punto, avrebbe potuto anche morire: il più Grande di tutti i Grandi, senza eguali, nessuno paragonabile a lui sulla Terra.

A un tratto si fermò.

Sì, ma... più in alto di chi? Di suoi pari, naturalmente, non ne esistevano, ma se sollevavi lo sguardo lassù oltre le nuvole, cosa trovavi...?

Riprese a camminare, ma più lentamente.

Quello era l'unico oscuro interrogativo che si insinuava a volte in Stalin.

Da tempo era stato dimostrato quanto si doveva, e quanto era d'impedimento era stato confutato.

Ma restava comunque qualcosa di non del tutto chiaro.

Soprattutto per chi come lui aveva trascorso l'infanzia nella Chiesa. E aveva guardato negli occhi le icone. Cantato nel coro. E ancora adesso cantava «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo...» senza impappinarsi.

Quei ricordi, chissà perché, negli ultimi tempi si erano fatti più vividi.

In punto di morte la madre gli aveva detto: «Peccato che tu non sia diventato sacerdote». Era il Capo del Proletariato mondiale, l'Unificatore di tutti gli slavi e a sua madre sembrava un fallito...

In ogni caso Stalin non si era dichiarato mai contro Dio, c'erano già fin troppi oratori anche senza di lui. Lenin aveva sputato contro la croce, l'aveva calpestata; Bucharin e Trockij l'avevano derisa. Stalin era rimasto zitto.

Aveva ordinato di non toccare Abakadze, l'ispettore ecclesiastico che lo aveva espulso dal seminario. Campasse pure.

E quando il 3 luglio del '41 gli si era seccata la gola e negli occhi gli erano spuntate le lacrime - non era terrore, ma compassione, compassione verso sé stesso - dalle labbra, non a caso, gli era uscito quel «fratelli e sorelle». Né Lenin né nessun altro dei capi si sarebbe mai lasciato scappare parole simili.

Le sue labbra avevano pronunciato quello a cui erano abituate in gioventù.

Nessuno aveva visto, nessuno sapeva, non l'aveva detto a nessuno: in quei giorni si era chiuso nella sua stanza a pregare, pregava per davvero, in un angolo vuoto, in ginocchio, pregava. Mesi più pesanti di quelli in tutta la vita non ne aveva mai avuti.

In quei giorni aveva fatto un voto a Dio: se il pericolo fosse passato, se lui avesse conservato la sua posizione, avrebbe ristabilito la Chiesa e il servizio sacerdotale in Russia, non avrebbe permesso che fossero cacciati, incarcerati. (Non bisognava permetterlo nemmeno prima, era cominciato tutto ai tempi di Lenin.) E quando il pericolo era passato per davvero, quando Stalingrado era passata, Stalin aveva fatto di tutto secondo il proprio voto. (...)

In generale Stalin notava in sé una strana tendenza non solo verso la religione ortodossa: ad attirarlo una, due, tre volte era stata una sorta di devozione verso il vecchio mondo, un mondo dal quale era nato lui stesso ma che come bolscevico distruggeva già da quarant'anni.

Negli anni Trenta, unicamente per ragioni politiche, aveva riesumato la parola patria che, ormai dimenticata, non si usava da quindici anni: udirla ormai era quasi una vergogna. Ma con gli anni pronunciare «Russia», «patria», era divenuto per lui un vero piacere. Peraltro il suo potere personale pareva ne ottenesse grande stabilità. Ci guadagnasse in sacralità.

All'inizio Stalin aveva attuato i provvedimenti del partito senza considerare quanti russi ne avrebbero pagato le spese. Poi però, per gradi, aveva iniziato ad accorgersi del popolo russo e a trovarlo simpatico: un popolo che non l'aveva mai tradito, che aveva sofferto la fame per tutti gli anni che era stato necessario, che andava tranquillamente in guerra e nei campi di lavoro, che non si ribellava mai di fronte a nessuna difficoltà. Fedele, sempliciotto. Proprio come Poskrëbyev. E dopo la Vittoria Stalin aveva detto con assoluta sincerità che il popolo russo possedeva mente lucida, carattere fermo e pazienza.

Stalin stesso, con gli anni, desiderava sempre più che lo considerassero russo.

Trovava piacevole persino quel modo di giocare con le parole che gli ricordava il vecchio mondo: che non ci fossero «dirigenti scolastici», ma «direttori»; non «personale di comando», ma «ufficiali»; non VCIK, ma Soviet Supremo («supremo» era una bellissima parola); che gli ufficiali avessero attendenti; che le ginnasiali studiassero separate dai ginnasiali, portassero la pellegrina e pagassero per l'insegnamento; che ogni dicastero civile avesse la propria divisa e il proprio segno di riconoscimento; che la gente sovietica si riposasse la domenica, come tutti i cristiani, e non in qualche anonimo giorno contrassegnato da un numero; e persino che si riconoscesse soltanto il matrimonio legittimo, com'era sotto lo zar, anche se lui stesso, a suo tempo, l'aveva pagata cara per questo... Qualunque cosa ne pensasse Engels, dagli abissi marini, e sebbene gli avessero consigliato di fucilare Bulgakov e di bruciare I giorni dei Turbin sulle guardie bianche, una forza gli aveva toccato il gomito perché scrivesse: «Da ammettere solo in un teatro moscovita».

Proprio lì, nello studio notturno, per la prima volta aveva provato davanti allo specchio le vecchie spalline russe sulla sua giubba militare, ed era stato un piacere.

In fin dei conti non c'era nulla di sconveniente nemmeno nell'uso della corona come supremo segno di distinzione. In fin dei conti, veniva da un mondo collaudato, stabile, che aveva retto per trecento anni; perché allora non prenderne il meglio?

Sebbene la resa di Port-Arthur ai suoi tempi non potesse che rallegrarlo, poiché era un rivoluzionario deportato fuggito dalla provincia di Irkutsk, dopo la disfatta del Giappone evidentemente non aveva mentito nel dire che la resa di Port-Arthur pesava come una macchia scura sull'amor proprio suo e degli altri vecchi russi.

Sì, già, i vecchi russi! A volte Stalin pensava che non fosse un caso se si era imposto alla testa di quel paese e ne aveva conquistato i cuori, proprio lui e non tutti quei celebri sbruffoni e talmudisti con il pizzetto, senza casato, né radici né positività.

Eccoli lì tutti quanti, sugli scaffali, senza rilegature, nei fascicoli degli anni Venti: affogati, fucilati, avvelenati, bruciati, caduti vittime di incidenti d'auto, suicidi! Sequestrati ovunque, colpiti da anatema, apocrifi: erano tutti lì allineati! Ogni notte gli offrivano le loro pagine, scuotevano le barbette, si torcevano le mani, gli sputavano contro, strillavano rauchi, gli gridavano dagli scaffali: «Noi vi avevamo avvisato!», «Bisognava fare diversamente!». Per fare le pulci agli altri non serve troppo cervello. Anche per questo Stalin li aveva riuniti tutti lì, per essere più cattivo la notte, quando prendeva le decisioni. (Chissà perché sembrava sempre che gli avversari umiliati, per certe cose, avessero quasi ragione. Stalin tendeva l'orecchio con diffidenza alle loro sepolcrali voci nemiche e a volte qualcosa accettava.)

Il loro vincitore, con la giubba da generalissimo e la fronte da pitecantropo decisamente protesa in avanti, si trascinava a fatica lungo gli scaffali, e ci si reggeva con le dita contratte, passando in rassegna i suoi nemici.

L'invisibile orchestra dentro di lui, al cui ritmo procedeva avanti e indietro, si fermò e tacque.

Presero a dolergli le gambe, che parevano sul punto di staccarsi. Pesanti ondate gli pulsavano in testa, la tranquillizzante catena di pensieri si sgretolava... si era dimenticato completamente perché aveva raggiunto quegli scaffali. A cosa stava pensando un momento prima?

Si lasciò cadere su una sedia lì accanto e si coprì il viso con le mani.

Era una vecchiaia terribile... Una vecchiaia senza amici. Una vecchiaia senza amore. Una vecchiaia senza fede. Una vecchiaia senza desideri.

Nemmeno della figlia prediletta aveva più bisogno, la sentiva estranea.

La sensazione della memoria che gli veniva a mancare, dell'intelletto che si offuscava, dell'isolamento dai vivi: tutto lo riempiva di un terrore impotente.

Con lo sguardo velato di lacrime abbracciò la stanza, senza rendersi conto se le pareti fossero lontane o vicine.

Sul comodino accanto c'era un'altra piccola caraffa sotto chiave. Tastando Stalin trovò la chiave, da tempo legata alla cintura (nello stato in cui era avrebbe potuto lasciarla cadere e poi cercarla a lungo), aprì la caraffa e, dopo essersi riempito un bicchiere di liquore fermentato, lo bevve.

Poi tornò a sedersi con gli occhi chiusi. Fisicamente si sentiva meglio, quasi bene.

Lo sguardo ora più lucido cadde sul telefono... la cosa che gli era sfuggita per tutta la sera si insinuò di nuovo nella sua memoria come la punta della coda di un serpente.

C'era qualcosa che doveva domandare ad Abakumov... avevano arrestato Gomuka?...

Sì, ecco cosa! Si alzò e, strascicando delicatamente i piedi sul tappeto, raggiunse la scrivania, dove afferrò una penna e sul calendario scrisse: «Sistema di telefonia segreta».

Gli era stato riferito che avevano radunato le forze migliori, che la base materiale era ottima, entusiasmo, circostanze favorevoli... perché allora non finivano?! Abakumov, quella faccia da insolente, era rimasto lì seduto, il cane, per un'ora intera, senza farne parola!

Tutti così, in ogni dicastero: cercavano sempre di ingannare il Capo! Come faceva a fidarsi? Come poteva non lavorare la notte?

Alla colazione mancavano ancora più di dieci ore.

Chiamò al telefono perché lo aiutassero a indossare la vestaglia.

Il paese, spensierato, poteva dormire; suo Padre no!

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