Cultura e Spettacoli

Ovazioni e polemiche per la Calabria con l'«anima nera»

Il film di Francesco Munzi su una faida familiare in terra di 'ndrangheta becca 13 minuti di applausi. Ma anche la ramanzina dei politici del Sud

nostro inviato a Venezia

Anime aspre. Anime dure. Anime che portano impresso il marchio della terra che le ha forgiate. L'Aspromonte è una montagna lontana, inaccessibile, altèra. Un'origine dalla quale sembra impossibile emanciparsi, un destino al quale non si sfugge. Laggiù, nel territorio di Africo, paesino a sud di Locri che dalla costa ionica della Calabria si inerpica sulle pendici di quella montagna dimenticata, Francesco Munzi ha ambientato il suo Anime nere , tratto dall'omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (edito da Rubbettino), primo film italiano in concorso alla Mostra di Venezia (produzione Cinema Undici, Babe Films e Rai Cinema). Già promosso dalla critica (ieri 13 minuti di applausi!), uscirà nelle sale il 18 settembre.

«La lettura del romanzo di Criaco è stata per me un colpo di fulmine», ha raccontato ieri il regista, spiegando la genesi del suo lavoro. «Sono stato preso dalla forza della scrittura e dalla visceralità dei posti. Pochi giorni dopo ero ad Africo. Ma tutti volevano dissuadermi. Sembrava un film impossibile. Africo è uno dei luoghi più inaccessibili d'Italia, per andarci servono le jeep. Io mi sono avvicinato con un grande timore che veniva dalla lettura del libro di Gioacchino e dalla letteratura giudiziaria e giornalistica su quel luogo. Mi considero un documentarista mancato, perciò ho l'abitudine prima di studiare e indagare. Poi di liberare la storia e i personaggi. Il mio è stato un approccio sospettoso e faticoso. Ma ho fatto capire che non avevo pregiudizi. E poco alla volta ho visto la diffidenza della gente trasformarsi in disponibilità».

Più che una storia di 'ndrangheta e di guerra tra clan, peraltro tenuta sullo sfondo, evitando il minimo compiacimento nella messa in scena della criminalità, Anime nere è una faida familiare imperniata su tre figli di un pastore ucciso durante un sequestro di persona. Ma le strade scelte dai tre fratelli per costruirsi un avvenire sono molto diverse. Il più giovane ma anche il più duro è Luigi (Marco Leonardi, Nuovo Cinema Paradiso e Maradona, La mano de Dios ), un trafficante di droga con l'aria strafottente. Il secondogenito è Rocco (Peppino Mazzotta, Noi credevamo al cinema, Il Commissario Montalbano in tv), imprenditore benestante a Milano con i soldi della 'ndrangheta e marito di Valeria (Barbora Bobulova). L'unico rimasto ad Africo a pascolare le capre resistendo alla cultura mafiosa è Luciano (Fabrizio Ferracane, Il capo dei capi e Squadra antimafia ). Vive della memoria dei morti e cerca un riscatto morale. Ma per il figlio ventenne, Leo (l'esordiente Giuseppe Fumo), è un debole, un uomo del passato, perché il futuro appartiene a quelli come lui che vogliono farsi strada sulle tracce dello zio Luigi, il capoclan.

Così, quando una banale lite incrina l'onorabilità della famiglia, Leo può dimostrare il proprio valore distruggendo la vetrina del bar protetto dalla cosca rivale. Poco più di una ragazzata. Che però, in un microcosmo arcaico, fatto di gerarchie immodificabili, di alleanze e matrimoni da combinare nella ritualità di un pranzo tra famiglie, finisce per allargare le diffidenze e innescare la spirale delle vendette. Le anime sono inaccessibili e impervie quanto la montagna aspra e desolata, vera protagonista della storia. Anche se l'assessore alla Cultura della Calabria, Mario Caligiuri, non accetta certi commenti stereotipati alla sua regione, «un territorio che offre molto altro».

«Ho voluto - ha spiegato Munzi - che il film fosse recitato in dialetto. Non perché è di moda, quanto perché illustra il senso della vicenda. Quella gente ha un'identità forte e altèra, tanto da mettere in discussione ancor oggi l'appartenenza all'unità nazionale. E da sviluppare un senso di rivalsa nei confronti di uno Stato in cui non si riconosce. È un'ideologia che ritengo pericolosa. Per questo - ha continuato il regista - ho voluto conoscere persone reali che avessero avuto una vita simile a quella dei miei personaggi. Ho coinvolto attori non professionisti, abitanti delle zone dove ho girato, Africo, Bova, Locri. Professori, avvocati, muratori, agricoltori, pastori sono diventati per l'occasione attori, e dei migliori. Abbiamo scritto e riscritto i dialoghi, quasi costruendo la lingua di Anime nere . Gli attori hanno preso dai non professionisti le cadenze, le espressioni, le movenze. I non attori invece hanno imparato le regole del mestiere, capendo che recitare è un lavoro.

Si sono mescolati: alla fine non li distinguevo più».

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