Cultura e Spettacoli

"Perché sono diventato un grande scrittore? Perché sono giornalista"

Il suo nuovo libro raccoglie articoli e reportage Che parlano del rapporto tra verità e finzione

"Perché sono diventato un grande scrittore? Perché sono giornalista"

Dice il titolo del nuovo libro di Emmanuel Carrère, una raccolta di reportage, saggi e articoli scritti negli ultimi 25 anni, che Propizio è avere ove recarsi (Adelphi). È una delle risposte tratte dall'I Ching, che lo scrittore francese iniziò a consultare mentre lavorava alla biografia di Philip K. Dick. Del resto, secondo uno dei protagonisti di un altro suo libro (Vite che non sono la mia), dire di una persona che «sa dove sta» è un grande complimento.

Quindi, Emmanuel Carrère, lei sa dove sta?

«Vorrei sapere meglio dove sto, ma aiuta avere un posto dove andare. L'esperienza del giornalismo e dei reportage ti dà una direzione, dei luoghi dove orientare lo sguardo. Ho il privilegio di potere scrivere lunghi reportage per la rivista XXI: per esempio, sul primo numero, dieci anni fa, scrissi una lunga storia su un personaggio di nome Eduard Limonov...»

Il tema della non-fiction e dell'uso della prima persona è centrale nei saggi. Perché?

«All'inizio della carriera scrivevo romanzi in terza persona. Poi c'è stato un momento, nei primi anni Novanta, in cui ho cercato di scrivere un libro su un fatto di cronaca, una storia terribile, che interessò molto giornalisti e registi».

L'Avversario, storia di un uomo che stermina la famiglia.

«Era un lavoro lungo, lento e difficile. Procedevo in terza persona, come sempre e cercavo di scrivere con distacco. Ma non riuscivo».

E poi?

«Dopo sei anni di tentativi falliti ho lasciato perdere. E ho deciso di scrivere qualcosa solo per me, come un memorandum. L'ho fatto in prima persona, ovviamente. E dopo poco, ho scoperto che ero capace di scriverlo. Il fatto è che dovevo decidere la mia posizione nei confronti della storia».

È un conflitto molto «letterario»?

«Flaubert faceva un punto d'onore del fatto di essere impersonale, di non apparire, di essere come Dio, da nessuna parte e dappertutto. Balzac invece voleva avere una sua presenza, era più indiscreto. Per me è stato un cambiamento importante. Da allora non sono stato più capace di scrivere in terza persona».

Il Nobel per la Letteratura due anni fa è andato a Svetlana Aleksievic, che scrive non fiction e reportage. È una tendenza contemporanea?

«Sono stato molto contento del Nobel alla Aleksievic. È una grandissima scrittrice ed è una giornalista. E non è una brava scrittrice nonostante sia una giornalista; al contrario, è così brava anche perché è una giornalista».

Quante volte ha letto A sangue freddo di Capote?

«Non ricordo, ma un po' di volte... E almeno una anche dopo avere scritto L'Avversario: per puro piacere, perché è meraviglioso».

È stato un'ombra?

«Certo. Lo è per qualunque scrittore racconti di un crimine».

L'ideale dello scrittore impersonale è sempre una bugia?

«Non sempre. Nel caso di Flaubert, se scrivi un romanzo puro, il problema non esiste. Nel caso di Capote sì. Perché, quando i due assassini sono finiti in prigione, lui è entrato nelle loro vite, è stato una presenza fondamentale fino alla fine. Si è trovato in una situazione strana e sgradevole».

In che senso?

«Diceva ai suoi due amici, perché questo erano diventati, che li avrebbe aiutati a trovare l'avvocato migliore e, allo stesso tempo, pregava che fossero impiccati, per avere la conclusione migliore per il suo libro. Pochi libri sono stati scritti in condizioni così moralmente scomode. Il fatto che, dopo questo capolavoro, Capote non abbia scritto altro di così consistente, credo sia legato al rimorso. Ma forse sbaglio».

Lei ha mai provato rimorso?

«Beh, credo che non vorrei più scrivere un libro come La vita come un romanzo russo: ha offeso molto la mia ex. Niente di grave, ma ho un po' di rimorso».

E sua madre come reagì? Lei rivelò la fine di suo nonno, probabilmente ucciso perché collaborava con i tedeschi.

«Con mia madre è stato diverso. Ho detto cose sulla sua famiglia che non voleva scrivessi, ma credo non avesse il diritto di proibirmelo. C'è stata un po' di freddezza, ma poi mi ha perdonato. Credo dovessi scrivere quelle cose».

È vero che sua madre quasi 40 anni fa scrisse un libro sui musulmani nell'Urss?

«Sì, in francese s'intitolava L'impero scoppiato: era sulle nazionalità non russe dell'Unione Sovietica e predisse che, per la loro presenza, l'impero avrebbe avuto molti problemi. Fu un bestseller».

Un romanzo è vero solo se parla di cose vere?

«No. È quello che faccio, scrivere di cose vere, ma non per ideologia. Amo moltissimo i romanzi, adoro leggerli ma, personalmente, il mio modo è di scrivere storie vere e trovare una posizione personale di fronte i protagonisti, che sono persone vere. Questo ti dà anche un senso di responsabilità nei loro confronti. Poi dipende, per esempio Eduard Limonov è una figura pubblica, quindi, anche se non fosse stato contento del libro che ho scritto su di lui, non mi sarei preoccupato».

Cita spesso Philip Dick, nei suoi articoli.

«Credo che in qualche modo sia stato profetico. Per esempio, il fatto che la rappresentazione della realtà avrebbe preso il posto della realtà stessa. Molti film sono ispirati apertamente ai suoi romanzi ma ce ne sono molti altri, come Matrix o The Truman Show, ispirati dall'universo di Dick: perché è diventato una specie di topos».

Dal suo Il Regno sarà tratta una fiction tv?

«È un progetto abbastanza avanzato, stiamo cominciando con le sceneggiature: dovrei scrivere il terzo e il quarto episodio».

Perché ha detto di sentirsi più vicino a Luca che a Paolo, fra gli evangelisti?

«San Paolo era un genio, ma non era molto empatico. Luca aveva molto talento come scrittore, mi piace il suo atteggiamento nei confronti del mondo. È un po' come Watson, rispetto a Sherlock Holmes. Io preferisco Watson».

Un bravo scrittore può essere felice?

«Non mi vengono in mente esempi. Io ho paura di non avere grandi capacità di essere felice, ma non perché sono uno scrittore... In un certo senso sono piuttosto fortunato, ma non ho il talento di scovare la felicità nelle piccole cose».

Il prossimo libro?

«Non ho progetti per ora. Scrivo sceneggiature e reportage.

Vorrei avere un progetto per un libro, ma non ce l'ho».

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