Cultura e Spettacoli

«La perdita della madre Quando il dolore si attenua nella scrittura»

Il regista parla di «Fai bei sogni», il film tratto dal romanzo autobiografico di Gramellini

Cinzia Romani

Madri scomparse, defunte, morte ammazzate. Comunque ingombranti, malvissute e respinte, anche quando desiderate. Il cinema di Marco Bellocchio, settantenne maestro divenuto un classico, gronda di tali figure femminili, nel bene e nel male motori della cellula familiare. E se nello smagliante esordio de I pugni in tasca (1965), mezzo secolo fa, il protagonista uccideva la madre, spingendola in un burrone, nell'ultimo film del regista piacentino Fai bei sogni (dal 10 novembre) è la madre del protagonista a lasciare tragicamente il figlio. Quella madre e quel figlio così ben raccontati nel romanzo omonimo di Massimo Gramellini, al quale Bellocchio s'ispira. Un best-seller, una storia d'amore e di assenza. Un'assenza che ruggisce come una tigre nel cuore di Massimo, qui Valerio Mastandrea, orfano seguito dall'infanzia ai trent'anni, quando, da giornalista, riesce a scrivere, e con successo, del proprio dolore. Scatenando opposti sentimenti, anche di avversità. Come quando il più anziano e autorevole collega gli dice che «Il libro Cuore ti fa una pippa». Siamo in quella zona di contrastanti emozioni, che Bellocchio, a Mantova per ritirare il Premio Fice come regista dell'anno per i cinema d'essai, sa mettere in chiaro dentro un dramma già presentato a Cannes, con esiti apprezzabili.

Com'è arrivato alla storia di Fai bei sogni?

«Col passare degli anni, ho affinato la mia capacità di modellare storie che non sono mie. Quando mi proposero un film sul sequestro di Aldo Moro, ne venne fuori Buongiorno notte. E in questo caso, insieme a Edoardo Albinati, straordinario autore che quest'anno ha vinto lo Strega col suo monumentale libro sulla scuola cattolica, e insieme a Valia Santella, non siamo partiti dal libro. Ma dalla storia di Gramellini. È chiaro, però, che il nucleo fondante resta il romanzo. Il protagonista è torinese come Gramellini».

Nel film, colpisce l'elemento pop del Belfagor televisivo, feticcio e amico segreto del protagonista...

«Qui c'è una famiglia che guarda la televisione, come quasi tutte le famiglie degli anni Sessanta. Una famiglia che guarda il festival di Sanremo, orecchia la sigla di Canzonissima, si lascia stregare dal fascino di Belfagor. E la madre del protagonista, la straordinaria Emanuelle Devos, arriva a identificarsi con la star dello sceneggiato televisivo. E, come la Greco si buttava giù al ponte, lei si lascerà cadere nel vuoto. Una relazione potente tra soggetto e medium».

In Fai bei sogni i giornalisti, che popolano il mondo del protagonista, non fanno bella figura: narcisisti, cinici e pennivendoli. Anche lei li vede così?

«Il mio film non si occupa di attualità e non interessa specificamente il mondo del giornalismo. È invece la storia di questo italiano, che nel giornalismo cerca una copertura al proprio vuoto sentimentale. Non ho inteso condurre un'indagine sul mondo del giornalismo, sia chiaro. Ma è certo che si tratta di un universo con luci e ombre. Il giornalismo può essere un mestiere tragico, con una dimensione disumana».

La figura della madre suicida coincide con un personaggio femminile egoista, che pensa soltanto al proprio dolore. E, in effetti, è strana questa donna che, giocando a nascondino col figlio, quasi gode a non farsi trovare, lasciando il bambino nell'angoscia. Come ha costruito questo personaggio femminile?

«Di comune accordo con Gramellini, ci siamo separati dalle cose raccontate nel libro. A me interessava trovare un'immagine sensuale, femminile e, al tempo stesso, che avesse una fermezza e un carisma, nel non voler concedere al bambino la propria presenza. Un contrapporsi con amore: questa è la chiave del rapporto tra quella madre e quel figlio. C'è un amore morboso verso il figlio? È anche probabile».

Massimo Gramellini le ha fornito la sua consulenza, mentre girava?

«È stato gentile e affettuoso. Ci ha lasciato la massima libertà. Certo, a ogni passaggio chiedevo il suo parere, perché mi indicasse che cosa ne pensava. Qualche osservazione di dettaglio, nulla più. Per il resto, mi ha detto: Fai come ti pare. È venuto sul set una volta soltanto ed è rimasto molto colpito... Si è fatto una foto con il piccolo attore, che lo impersonava da bambino. Era colpito perché ha ritrovato dettagli precisi. E forse perché ha rivissuto lo struggimento che ha segnato la sua vita».

E' partito da una madre, uccisa dal figlio e oggi troviamo un figlio che si strugge per la madre che ha perso. Qual è il suo rapporto con la figura materna?

«Se penso a mia madre, ricordo che lei si è sacrificata per tutti noi. C'era sempre tanto da fare, nella nostra casa e non ricordo un'attenzione particolare, o la messa a fuoco di un amore speciale, come nel caso di Gramellini. Il gioco del nascondino, con la madre che impedisce al bambino l'esperienza di trovarla... non l'ho mai vissuta con mia madre. Nel film, come nel libro, c'è un non voler aprire l'ultima porta. Certe non-menzogne dipendono da chi hai davanti. A volte, la brutalità è sana.

A volte, è violenta».

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