Cultura e Spettacoli

Perversione e riso amaro Goddard convince con il pulp "El Royale"

Il film con il superlativo Jeff Bridges strizza l'occhio a Tarantino e ai fratelli Coen

Perversione e riso amaro Goddard convince con il pulp "El Royale"

Puro pop corn, molto godibile, al primo giorno della Festa di Roma, che ieri ha aperto i battenti con il solido thriller 7 sconosciuti a El Royale (dal 25) di Drew Goddard, regista classe 1975, cresciuto a pane e Quentin Tarantino, del quale ripropone ogni possibile «pulp». Charles Manson compreso, battendo quindi sul tempo il buon Quentin, che sta lavorando proprio a un film sullo stesso periodo e sulle sette. Adrenalina e colpi di scena, in un ambiente claustrofobico come l'albergo per pervertiti dove si svolge questo noir ambientato nel 1969, nell'era Nixon, hanno fatto letteralmente sobbalzare i giornalisti sulle loro poltrone.

Grati per un'apertura così convincente, i gazzettieri si sono spellati le mani a fine proiezione: non capita tutti i giorni di venir sorpresi da una sceneggiatura imprevedibile, che strizza pure l'occhio al riso amaro dei fratelli Cohen. Sette anime perse in un hotel al confine tra California e Nevada, postaccio decaduto dove un tempo cantava Dean Martin, animano un racconto a scatole cinesi. Chi ammazzerà chi, nel gruppetto di strane persone che include un prete (Jeff Bridges, ancora affascinante, oltre che bravo), un venditore cinico (Jon Hamm), una gangster hippy (Dakota Johnson: doveva venire a Roma, ma aveva un evento di beneficenza irrinunciabile) e una cantante nera dalla voce meravigliosa(Cynthia Eviro)? E poi c'è lui, Chris Hemsworth, che impersona una specie di Charles Manson molto sexy, mentre, a petto nudo e ventre scolpito, gioca alla roulette russa con le sue vittime, portandone a galla la doppiezza.

Perché tutti hanno qualcosa da nascondere ed è per questo che a El Royale abbondano cimici (per l'ascolto a distanza), falsi specchi per guardare senza essere visti e una cinepresa, pronta a riprendere i clienti.

Non ci si annoia certo, nelle due ore e ventuno di regia anamorfica: da bravo cinefilo, Drew Goddard ha voluto usare la pellicola e non il digitale. «Amo gli anni Sessanta e, usando la pellicola, miravo a una narrazione emotiva, impossibile con il digitale. Per sette personaggi, mi serviva un fotogramma ampio: in questo, sono stato influenzato da Sergio Leone, dal suo C'era una volta il West, scandisce Drew. Il quale ammette il suo debito verso Tarantino. «Cresciuto nei Novanta, impossibile sfuggire alla sua influenza. Anche se debbo molto pure ai fratelli Cohen, per me i più grandi cineasti della storia del cinema. Sia Tarantino che i Cohen non hanno paura di scivolare tra i generi», dice il regista, che ha lavorato per le serie tv Alias e Lost, apprendendo la tecnica da J.J.Abrams ed esordendo alla regia con l'horror Quella casa nel bosco.

E se lotta tra Bene e Male, qui, viene inscenata da due lolite che combattono per finire a letto con il Manson di turno, sul movimento #MeToo il regista ha le idee chiare: «Ho girato il film cinque anni fa e il movimento ancora non c'era. Ma maschilismo, razzismo e violenza esistono ancora e dobbiamo continuare a combatterlo», paga così il suo tributo all'attualità il cineasta di Los Alamos.

Dribblando sagacemente la solita, noiosa domanda sulle nefandezze di Trump, nell'America attuale, Goddard rimanda alla speranza: «Ci sarà sempre la luce, anche in tempi oscuri. Il mio film si conclude con la speranza, dopo un percorso di redenzione: non a caso si salva la cantante nera, l'artista.

Perché l'arte è importante».

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