Cultura e Spettacoli

Pierre Lemaitre, il piacere dell'inganno dal «polar» alla storia

Stefania Vitulli

Cominciare con un funerale è un'ottima mossa: il passato e il futuro si incontrano e la storia comincia a montare, inesorabilmente, sulle ceneri di qualcuno che ormai non ha più alcun potere. Siccome però Pierre Lemaitre è un drago dei meccanismi di seduzione narrativa (ha creato tra l'altro la serie del commissario Camille Verhoeven) e per il secondo volume della sua trilogia sulla Francia del Novecento, I colori dell'incendio (Mondadori) - che presenterà domani pomeriggio a Pordenonelegge - ha scelto di iniziare con un funerale corredato di salto mortale. Siamo a Parigi, febbraio 1927 («Perché gli anni Trenta? Sono romantici, quindi tragici. E di una eleganza folle»): sta per arrivare il presidente della Repubblica a rendere omaggio alla salma di Marcel Péricourt, figura chiave dell'economia francese, su cui l'attenzione è catalizzata fino a che il nipotino Paul compie un gesto fatale che renderà quella giornata drammaticamente memorabile.

Spara una cartuccia geniale fin dalle prime pagine e poi osa ancor di più, l'ex professore di letteratura Lemaitre, conscio che la posta è alta: il primo volume della trilogia, Ci rivediamo lassù, ha vinto il Goncourt 2013 e ha conquistato oltre un milione di lettori, in 26 lingue. La trama del sequel è all'altezza: la protagonista, Madeleine, vive di vendetta, mentre i comprimari sono alcune carogne impagabili («Un buon romanzo di avventura deve avere degli stronzi come si deve», è il mantra di Lemaitre) e l'indimenticabile Dupré, samurai collerico di grande spessore morale («Amo Dupré e adorerei essere lui», confessa).

I dati di vendita sembrano premiarlo: I colori dell'incendio si attesta già sulle 300mila copie. E meno male, perché scrivere una trilogia storica è una bella fatica: «Un romanzo sono duemila ore di lavoro circa», ci spiega. «Qual è il mio motore? L'ambizione: mi cullo nell'idea che sto fabbricando un bell'oggetto letterario e questa finzione mi è molto utile. Poi i personaggi: seguirli, farli vivere, dà dipendenza. Infine, siccome sono un bugiardo professionista, immaginare l'effetto sorpresa nel lettore. Nel terzo volume, ad esempio, ci sarà una falsa pista: l'ho levigata paragrafo dopo paragrafo pensando alla faccia del lettore nel momento in cui capirà la verità».

Ambisce a governare la suspence, Lemaitre, perché nel suo Dna ci sono i polar, ma ammette che il genere sta diventando molesto: «Se ne pubblicano troppi: in Francia due romanzi su tre sono gialli. Questa superproduzione comprende anche troppi brutti libri e finisce, per un motivo puramente aritmetico, per giustificare il disprezzo che proviamo nei confronti della letteratura popolare: associamo il genere con la critica che se ne fa e lo squalifichiamo. Colpa di editori incapaci, ma anche di cattivi scrittori». I colleghi di polar non sono i soli verso cui Lemaitre è polemico: «Ho il privilegio di appartenere ai quei venti autori francesi che vivono dei loro libri e faccio parte di quei dieci che vivono molto bene. Tuttavia continuo a votare per gente che se arriva al potere mi porterà via tutto. Ho sentito Houellebecq dire: Sono troppo ricco per votare a sinistra. Ecco, se tra me e lui c'è una differenza - oltre al fatto che lui ha più talento - è questa: lui non vota che per se stesso.

E questo è anche il tratto caratteristico della sua letteratura: parlare del narcisismo contemporaneo, in cui ciascuno diventa la propria stessa regola».

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