Cultura e Spettacoli

Dalla politica ai termini nati in Rete ed entrati nell'uso Ecco l'elenco delle parole più «petalose» dell'anno

Massimo Arcangeli

L e emoji le conosciamo bene, e alle versioni personalizzate (doodles) del logo di Google ci stiamo via via abituando; con le stepchild adoptions si è imparato a convivere, pronunce improbabili a parte, e ci suonano ormai piuttosto familiari i foreign fighters, gli affiliati stranieri all'esercito dello Stato Islamico. Fin qui le cose sembrano relativamente semplici, ma non sempre si ha una sufficiente confidenza con neologismi da un po' di tempo sfornati à gogo: non tutti saprebbero riconoscere un'action cam(era), la telecamerina indossabile per le riprese in soggettiva; non molti riuscirebbero a cavarsela col bartering, una forma di baratto in cui lo scambio (di beni o servizi) coinvolge due o più imprese collegate in un circuito; pochi saprebbero dire cosa sia un dashboard, il cruscotto che facilita l'accesso ai dati, con l'ausilio di miniapplicazioni (widgets), visualizzandoli alla bisogna.

Sono solo alcune delle nuove parole e locuzioni introdotte nello Zingarelli 2017. Inseguono l'informatica e le nuove tecnologie, ma con Facebook e Twitter si dovrebbe far spazio almeno a Instagram, WhatsApp (con whatsappare), Pinterest e Snapchat (ultimo arrivato: Peach); sposano l'ingentilimento politicamente corretto, dando conto di una modella grassa trasformata in una «provvista di curve» (curvy); accompagnano la ricerca della bellezza corporea e del benessere fisico (il camouflage, il picotage, il fotoringiovanimento) e le solite, annesse neopatologie (la vigoressia, l'ossessione dell'aspirante a un fisico scultoreo); ammiccano alle nuove frontiere dell'erotismo: gli speed dates, gli «appuntamenti veloci», o le cam girls, le teleprostitute. Si moltiplicano intanto gli alberghi a ore, per tresche e amorazzi fugaci. Sono i day use. Nello Zingarelli sono (ancora) assenti, come non ci sono snuffing o trampling, per rimanere ai gusti più pudichi in quanto a pratiche sessuali che stanno mutando nel profondo l'immaginario erotico globale.

Con i cupcakes e i doughnuts (o donuts), gli spätzle e le cresce (dolci o salate) si affacciano, nel più longevo dei nostri vocabolari, strascicati, strangozzi e bacche di goji. Peccato manchino il muscolo di grano (la «carne vegetale»), che acquisto e mangio volentieri; la calamarata, che ordino spesso al ristorante; mafalde e perciatelli, e il piccantissimo peperoncino messicano habanero, di cui sono ghiotto. C'è il malato di dribbling (dribblomane) ma non la pole dance, la danza acrobatica con la pertica; l'animatronica (e gli animatroni), e poi, magari, le diamesie e le diastratie, ma non il comune spoilerare.

Non recentissimo, ma anch'esso assente nel significato che mi preme , l'euroinglese hotspot, di cui si è cominciato a sentir parlare con frequenza dall'autunno del 2015. Un termine, agli occhi dell'Accademia della Crusca, addirittura «offensivo, elusivo rispetto alla realtà, dunque politicamente scorretto» (www.accademiadellacrusca.it). Consigliano, gli studiosi incaricati di indicare equivalenti italiani di parole ed espressioni straniere, centro di identificazione dei migranti. Non fai però in tempo a pronunciarlo che i momentanei ospiti sono già stati trasferiti altrove. O, nella peggiore delle ipotesi, sono belli che fuggiti.

C'è infine il lessico impostosi all'attenzione generale troppo tardi per poter occupare uno scranno nel lemmario zingarelliano.

Tre casi su tutti: petaloso, webete, post-verità. Sul primo è spuntato fuori chi ha fatto notare la preesistenza, oltreché dell'inglese petalous («provvisto di petali»), di un esempio seicentesco in contesto latino e di uno ben più tardo (1991), giornalistico, fiorito dalla penna di Michele Serra. Il gioco si è ripetuto con webete: una ricreazione, sia pure, perché già documentato in uno sconosciuto glossarietto di telematichese degli anni Novanta, ma il merito di averlo diffuso largamente è di Enrico Mentana. Post-verità, delle tre voci, è la socialmente più interessante. L'antecedente inglese post-truth, parola reginetta del 2016 per l'Oxford English Dictionary, è a sua volta non nuovo. Circolava già nei primissimi anni Novanta, all'indomani della conclusione della Prima Guerra del Golfo.

Post-verità l'abbiamo sentita uscire anche dalla bocca di Matteo Renzi. Montata dopo la Brexit, e rinfocolata dall'esito delle elezioni americane, ci dice di una politica per la quale i fatti contano meno delle parole, l'argomentazione cede alla seduzione, il vero e il giusto lasciano il campo al bello e al verosimile, le emozioni e le convinzioni personali persuadono più di valori, idee, riscontri obiettivi. Appariamo più credibili se parliamo al cuore, anziché alla testa dei nostri potenziali elettori, e allora, se Renzi ci è parso più volte goffo, poco spontaneo o antipatico, chissà che questo non abbia avuto il suo peso per deciderne le ultime sorti. E poi, diciamocelo, il premier dimissionario è per giunta poco piacione. Guarda il caso.

Nello Zingarelli è entrato quest'anno, per la prima volta, anche piacionismo.

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