Cultura e Spettacoli

Povero Salgari, troppo popolare per avere la medaglia di "classico"

Falsi, mitologie inventate su di lui, snobismo degli intellettuali Così la fama (meritatissima) dello scrittore è stata oscurata

Povero Salgari, troppo popolare per avere la medaglia di "classico"

Stenio Solinas

Lo stagno dei caimani (Bompiani, pagg. 191, euro 12) è il titolo del volume che raccoglie nove racconti perduti e ora ritrovati scritti da Emilio Salgari, sotto lo pseudonimo di Guido Altieri, nei primi del Novecento. Presentandoli nel pieno rispetto «della scrittura salgariana» c'è da parte dei curatori, Maurizio Sartor e Claudio Gallo, la convinzione-constatazione che «il popolare scrittore d'avventure è ormai entrato a far parte dei classici della Letteratura italiana. A soddisfazione di quanti ancora oggi lo amano e lo leggono, senza mai rinunciare a rintracciare l'esatta ubicazione di Mompracem, l'isola che c'è».

Questo riferimento a Mompracem merita un approfondimento. Anni fa Silvino Gonzato, che con Sartor, Gallo e Giuseppe Turcato è uno dei grandi artefici della riscoperta salgariana, notò che quel toponimo era di fatto scomparso dalle carte geografiche già a metà dell'Ottocento: «Oggi l'isola che ha fatto sognare generazioni e generazioni di ragazzi e che è diventata per tutti sinonimo d'avventura, non c'è più. Resta il pensiero orribile e romantico, e per questo tanto più difficile da scacciare, che il destino di Mompracem sia legato a doppio filo a quello del suo unico, appassionato cantore».

Salgari, è noto, nel 1911 si tolse la vita oppresso dai debiti, dalla pazzia della moglie, dall'incubo della pagina bianca. Lo fece da improvvisato samurai, squarciandosi il ventre e la gola e lasciando lettere orgogliose e disperate: «Sono ormai un vinto», diceva quella indirizzata ai figli; «Vi saluto spezzando la penna», quella agli editori; «Cento milioni di ammiratori. Col mio nome dovevo attendermi altra fortuna ed altra sorte», quella ai direttori dei quotidiani torinesi. È noto anche che in tutta la vita non navigò più di tre mesi, non andò oltre Brindisi, non comandò mai una nave. Mitomane straordinario, costruì un universo parallelo che funzionava per lui come una sorta di camera di compensazione o, se si pensa al racconto di chiusura di Lo stagno dei caimani, che permetteva una specie di bilocazione, in sospeso fra sogno e realtà. Mompracem, insomma, era il suo destino e viceversa, l'una e l'altro insperabili e alla fine inafferrabili.

Torniamo a quel suo essere ormai parte dei «classici». Giorni fa ho fatto un esperimento. Dallo scaffale «salgariano» della mia libreria, una settantina di edizioni popolari, Viglongo, Carroccio-Aldebaran, la Collana dell'Orso di Vallardi, ho preso i tre volumi che compongono il ciclo de Il Corsaro Nero: il più celebre, quello omonimo che dà inizio alla trilogia, La regina dei Caraibi e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Ho cominciato a leggerli e non ho smesso fino a che non li ho finiti. C'è tutto quello che un romanzo d'avventura degno di questo nome deve possedere: i caratteri e i tipi umani, le descrizioni, il ritmo e l'intreccio, i cliché persino (i capelli neri come ala di corvo, i denti scintillanti come perle...) e, naturalmente, uno stile. La chiusa del Corsaro Nero è, al riguardo, esemplare: «Carmaux si era avvicinato a Wan Stiller e, indicandogli il ponte di comando, gli disse con voce triste: Guarda lassù: il Corsaro Nero piange!...».

Come inventore di personaggi e di storie, Salgari non ha nulla da invidiare a Dumas o a Verne, eppure questa constatazione ha messo molto tempo a imporsi rispetto alla stima e all'attenzione critica riservate ai due nomi appena citati. Le motivazioni sono molteplici. La prima ha a che fare con quella che in La tempestosa vita di capitan Salgari, Gonzato definisce «la più grande e vergognosa fabbrica di falsi della letteratura di ogni paese e ogni epoca» a opera degli eredi, degli editori e di «scrittorucoli mercenari». Scrittore prolifico di suo, Salgari venne trasformato in uno scrittore-fiume che nel suo percorso verso il mare della letteratura si portava dietro di tutto, rifacimenti volgari, plagi, finte opere postume, centoni sparsi, detriti ripetitivi. La seconda, alla prima strettamente legata, è la mitologia farlocca costruitagli intorno ad hoc. Salgari, lo abbiamo detto, era un mitomane, ma non aveva mai scritto le sue memorie: se le inventarono gli eredi, a cominciare dal figlio Omar, trasformando il padre in una sorta di involontaria macchietta. La terza, la più importante, ha però a che fare con la «classe dei colti» italiana, gli scrittori intellettuali da tinello, boriosi e noiosi, retori cultori della bella pagina e del proprio ombelico letterario. Loro erano «l'élite» e «Salgarello» un povero fenomeno popolare, da compatire e da irridere. Paese estraneo al romanzo, l'Italia aveva una cultura classica, sclerotizzatasi nel tempo, di educazione greco-latina da chiostro, da studiolo, con un suo profumo di corte e odore di chiuso e di sacrestia, dove le opere della vita, la mercanzia e l'avventura, la guerra e la taverna, il mare e la luce non avevano diritto di cittadinanza. Alla fine, gli unici che gli rimasero fedeli furono i ragazzini, che a ogni generazione puntualmente si ripresentavano compatti proprio perché ciò che volevano era vivere veramente la vita, non puramente trascorrere i giorni.

Anni fa un importante editor di narrativa per l'infanzia mi disse che quella catena s'era interrotta: era la lingua salgariana a non funzionare più, spiegò con sussiego. Magari avrà avuto ragione, non ho dati in materia e in fondo non mi interessa.

So che i classici non muoiono mai e che a Mompracem l'aria è tersa, il mare cristallino e per te Yanez ha sempre una sigaretta.

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