Cultura e Spettacoli

Pubblicato alla vigilia del «Simòn Boccanegra»il libro

Tanto blaterare, sempre prodotto da gazzettieri superficiali che trattano di musica a orecchio e sollevano questioni di etichetta, si capisce non conoscendo l'etica, mimetizzano il vero oggetto del contendere: il repertorio operistico italiano, di cui Verdi è l'architrave portante. Gruppuscoli di pensatori facenti funzione vanno spremendosi le testoline per attualizzare, mettere à la page il melodramma; mentre la parte musicale viene trascurata o fatta con la mano sinistra, come si trattasse di un male necessario. C'è di più: costoro ripetono, in sostanza, che Verdi è sinonimo di volgarità e pure quando ci ha donato le sue opere estreme le deve all'influsso di Wagner. A parte il fatto che Verdi appartiene all'estetica romantica, nutrita di Shakespeare, dove il «brutto» ha cittadinanza come il «bello». Anzi è stile sublime. Costoro dovrebbero spiegarci perché il tagliagole Sparafucile è rozzo e il bieco Mime, no. Oppure sono tutti e due declinazioni del male, l'uno espresso con sintesi latina, l'altro con discorsività fluviale. Non vogliamo metterci sullo stesso piano delle menti di cui sopra, e il nuovo libro di Riccardo Muti, Verdi l'italiano (Rizzoli) ovvero, in musica, le nostre radici, ci conforta con l'esperienza maturata sul campo dall'illustre direttore che proprio in questi dirigerà per la prima volta uno dei capolavori di Verdi, Simòn Boccanegra al Teatro dell'Opera di Roma. Verdi non ha bisogno di difese, anzi, quello che dice Muti, è che Verdi ci ha sempre rappresentato e difeso. «Nelle opere di Verdi - scrive Muti - c'è la vita e c'è la riflessione sulla morte, traspaiono il desiderio, la passione, l'amore, il silenzio, la delusione, talvolta anche l'insolenza, l'aggressività o l'intolleranza, che comunque fanno parte della nostra cultura, della nostra natura».

Con buona pace di quanti si agitano come pulegge che girano a vuoto.

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