Cultura e Spettacoli

Quando il racconto è una vera istantanea

Una raccolta delle migliori narrazioni brevi dedicate ai fotografi e alla fotografia

Quando il racconto è una vera istantanea

Racconti e fotografia: non c'è niente che sia stato accostato di più. Un racconto è (anche) un'istantanea, una fotografia è (anche) una storia. Accogliamo quindi come un atto dovuto il volume che Contrasto ha appena mandato in libreria Un tempo, un luogo. Racconti di fotografia (pagg. 191, euro 22), dove vengono antologizzate alcune delle migliori novelle che trattano il tema fotografico, da Eudora Welty a Tabucchi. Ma, prima di tutto, un passo indietro. O un ragionamento a latere. Sarà proprio vero che il racconto è un'istantanea (e di conseguenza la foto una storia)? Tutto farebbe pensare di sì, ma forse il rapporto tra racconto e fotografia è molto più complesso, e per indagarlo bisogna soffermarsi sul tempo. Sia il racconto che la fotografia combattono contro l'assenza di tempo. Breve è l'aggettivo che spesso qualifica il racconto (i Paesi di lingua inglese dicono short story), che in ambito fotografico richiama a sua volta la parola flash.

La brevità è un concetto temporale, oltre che spaziale, un racconto inizia per finire, sa che deve finire. Giorgio Manganelli a tal proposito scrisse: «Il racconto è l'unico genere che ha consapevolezza della fine». Savinio invece a proposito dei racconti di Maupassant affermò: «Unico scopo dei racconti di Maupassant: finire». Così il racconto sfida sempre il tempo, perché non ne ha, gli manca. Inizio e fine in un racconto sono elementi troppo ravvicinati per potersi ignorare a vicenda, è la maledizione del racconto, così come quello della fotografia, è riuscire a darsi una trama, una variazione narrativa, un intreccio. Il tempo della storia è diverso dal tempo del racconto, l'arco temporale di una narrazione può essere dilatato e contratto a piacimento, in una manciata di righe si può racchiudere il destino di una vita, o di diverse generazioni, o dell'universo, ma la misura resta breve, contratta, tarata su quelle tre o quattro pagine che fanno la forma, e perciò la sostanza.

Nel racconto dell'antologia Mirino di Raymond Carver uno strano tizio si aggira per le casette di un tranquillo quartiere middle class americano scattando delle polaroid ai padroni di casa - c'è qualcosa di meglio per richiamare alla mente il concetto di immagine immediata? Il protagonista del racconto, che è uno di questi proprietari, resta affascinato dal tizio, tant'è che oltre a una foto gli compra un intero servizio. Il tizio comincia a scattare foto a ripetizione, in ogni angolo della casa, ma il protagonista sembra sempre insoddisfatto. Salgono sul tetto della casa, il protagonista afferra un sasso e ordina al tizio di fotografare nel momento del lancio. «Ho preso un altro sasso. Ho sorriso. Mi sentivo pronto a decollare. A volare». Ecco spiegata l'arte del racconto come meglio non si può, è questa sfida alla staticità, è scattare una foto, sì, ma in movimento.

Da questo esito, che è il più significativo rispetto ai nodi teorici dell'incontro tra racconto e fotografia, si scende via via a toccare una gamma significativa di declinazioni del modo, si va dal mondo fantastico di Lewis Carroll popolato da foto incantate al verismo di Luigi Capuana dove la gelosia di una donna per il ritratto di una sua rivale anticipa di oltre un secolo Instagram, dalle avventure di Italo Calvino alle prese con la fotografia come congegno mnemonico perfetto fino a Arthur Conan Doyle che scomoda nientepopodimeno che Sherlock Holmes per sciogliere un giallo fotografico, dalla fotografia metafisica di Julio Cortázar che attrasse Michelangelo Antonioni (come dimenticare Blow up?) alla fotografia come scomposizione mortuaria, autopsia della memoria dove si viviseziona il tempo andato, di Antonio Tabucchi.

C'è da dire che questi scrittori erano anche appassionati fotografi (videro attraverso la scrittura e scrissero grazie alle immagini, come Virginia Woolf), e una puntuale scheda che precede ogni racconto ci offre al riguardo aneddoti assai sfiziosi. Conan Doyle, che era attratto da ogni branca dell'occulto, negli ultimi anni della sua vita s'interessò anche alla fotografia psichica, arrivando anche a scrivere un saggio che ruota intorno al misterioso caso delle fate di Cottingley, cinque fotografie che ritraggono due bambine circondate da spiriti, rivelatesi poi un clamoroso falso.

D'altronde realtà e finzione vanno sempre a braccetto quando si parla di arte e vita, e proprio come nel Ritratto ovale di Edgar Allan Poe, non si sa mai chi copia chi.

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