Cultura e Spettacoli

"Razzismi e fanatismi? Io non li capisco, allora ci rido sopra"

Il regista John Landis, presidente del Festival di Montecarlo, si racconta dagli esordi all'ultimo documentario

"Razzismi e fanatismi? Io non li capisco, allora ci rido sopra"

da Montecarlo

Far ridere è una delle cose più difficili del mondo. Farlo al cinema riuscendo a diventare un'icona che supera, travalica e attraversa decine di generazioni, è un miracolo in cui è riuscito un gruppo molto ristretto di cineasti. Uno di questi è sicuramente John Landis, anche se l'etichetta di comico gli va sicuramente stretta, regista di almeno quattro film, inanellati praticamente uno dopo l'altro, all'inizio degli anni Ottanta. È il poker d'assi Animal House, The Blues Brothers, Un lupo mannaro americano a Londra e Una poltrona per due. Con i primi due che non possono essere in alcun modo separati dal loro leggendario interprete, quel John Belushi che ci ha lasciati nel 1982, a 33 anni: «Era un genio, un vero talento, una di quelle persone che riusciva a esprimersi anche senza parlare. Durante le riprese dei film che ho girato con lui molti dei dialoghi scritti per i suoi personaggi venivano cancellati proprio perché grazie alla sua fisicità riusciva a trasmettere con precisione il suo stato d'animo». È il ricordo, oggi, di John Landis che quest'anno è il presidente onorario del Monte-Carlo Film Festival de la Comédie fortemente voluto da Ezio Greggio.

Al regista statunitense, nato a Chicago 66 anni fa, piace molto scherzare: «Non so quale sia la mia funzione qui. Mi fa strano. So che oggi ci sarà una masterclass con me insieme a Costa-Gavras e Michael Radford. Quindi per ora mi godo il panorama».

Com'è cambiata Hollywood rispetto a quando ha iniziato a lavorarci?

«Niente è più come prima. La tecnologia, Internet hanno cambiato tutto. Ora si può girare un film con l'IPhone che ho in mano ma è cambiata anche l'economia e paradossalmente è molto più difficile far uscire i film perché la distribuzione è in mano a pochi che ovviamente pensano solo agli incassi. Quando ho iniziato a fare film, ormai nei lontani anni '70, la cosa più importante era la qualità della sceneggiatura, poi certo veniva anche il regista e infine gli attori. E si potevano fare film più liberi, più adulti, più complessi, anche vietati ai minori. Oggi è esattamente il contrario».

La sua carriera è iniziata da giovanissimo, alla 20th Century Fox quando portava la posta...

«Certo, era completamente un'altra epoca, non a caso era il secolo scorso. Però è stata una gavetta che mi ha consentito di maturare una grandissima esperienza e poi ho conosciuto tantissime persone. Potrei raccontare pure una storia italiana».

Prego, faccia pure.

«Ho conosciuto Sergio Leone quando in Spagna facevo lo stunt-man in C'era una volta il West. Sul set parlavo spesso con due ragazzi italiani. Uno mi diceva che faceva il critico cinematografico e mi piaceva veramente tanto, mi sembrava molto affascinante il suo pensiero. Solo dopo ho saputo che si trattava di Dario Argento e Bernardo Bertolucci».

Qual è il suo film preferito?

«Non ho dubbi: I soliti ignoti. Mi ha sempre fatto ridere tantissimo ed è il paradigma di quello che penso debba essere una commedia, ossia un film universale che non ha nazionalità».

L'ultimo film che ha visto?

«Get Out, la commedia horror che sta sbancando al botteghino in questi giorni negli Stati Uniti e che è costata pochissimo. A dimostrazione che quando ci sono le idee...».

Carrie Fischer, protagonista di The Blues Brothers, una delle poche donne presenti nel suo cinema, è morta da poco. Che ricordo ha?

«Era una persona meravigliosa, sveglia e divertente. Era anche schizofrenica, depressa e ha abusato di droghe ma sfido chiunque a dire qualcosa di male su di lei».

Che ne pensa dei recenti premi Oscar?

«Moonlight è un ottimo film e sono contento abbia vinto un film su un gay afroamericano. Il premio ovviamente se lo meritava a prescindere dal tema».

Anche lei ha avuto certo successo con un attore afroamericano.

«Ho girato un film schiocchino con Eddie Murphy che nel 1988 ha incassato nel mondo qualcosa come 300 milioni di dollari. Il principe cerca moglie era un black movie ma non si notava in sceneggiatura. Sono stato molto orgoglioso di quel film anche se mi sembrava un po' lungo. Quando stava per uscire in dvd volevo tagliarlo ma il distributore disse che con tutti i soldi che aveva fatto non dovevo sognarmi di toccarlo».

Tornerà dietro la macchina da presa?

«Sto girando un documentario sull'odio. In queste settimane sto intervistando nazisti, fautori della supremazia bianca statunitense, rabbini, religiosi e comici».

Comici?

«Esatto, in realtà non capisco l'odio e cerco così di comprenderlo. Così come mi sfuggono le religioni, ad esempio nel cristianesimo nessuno fa quello Cristo dice di fare.

Poi certo si invoca il diavolo che è sempre una bella scusa. Comunque credo che alla fine sarà un film molto divertente ma terrificante allo stesso tempo»

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