Cultura e Spettacoli

la recensione

diAttila è ingombrante, sinonimo di terrore e barbarie. Lo porta la nona opera di Giuseppe Verdi che si è trascinata per anni un fardello, legato all’erroneo presupposto che l’Autore vi avesse sfogato solo rabbia quarantottesca. È un giudizio frettoloso che si ferma al primo coro, in stile canagliesco, dove gli Unni inneggiano alle proprie imprese: stupri, stragi e rovine. Il personaggio nella riduzione librettistica si rivela più complesso di un semplice Flagello, seppur di Dio: fermo condottiero, clemente verso i nemici, ossessionato da infausti presagi. Superstizioni che Verdi esalta con chiaroscuri degni del suo amato Shakespeare. Due esempi: il giustamente famoso Sogno premonitore e l’'incontro di Attila con l’allora vescovo Leone.
La vulgata diceva Attila melodramma tagliato con l’accetta, su misura del protagonista, la cui personalità era l’unica giustificazione per l’interesse dei numeri uno della chiave di basso, dal regale Nicolai Ghiaurov al fraseggiatore Samuel Ramey, senza dimenticare il calore del cantabile di Bonaldo Giaiotti. Un’opera che non aveva altra giustificazione, se non l’identificazione dei patrioti risorgimentali con le aspirazioni del baritono Ezio, difensore dell’Italia davanti all’invasore Unno.
Riccardo Muti vanta una lunga fedeltà con quest’opera e ha smentito in prestigiose esecuzioni i pregiudizi che vogliono il cosiddetto Verdi giovane (Attila incluso) ostaggio del famigerato zum-pa-pà. Oggi è pratica dilagante, soprattutto fra i «nuovi», semplificare la «cabaletta» in una manifestazione di pulsioni sbracate, invece di alleggerire l’architettura ritmica per trasformare le figure principali dell’opera in araldiche allegorie di un mondo eroico. Nel nitido impianto interpretativo meritano speciale menzione il baritono Nicola Alaimo (voce chiara e dizione naturale), che ha sottratto il generale romano Ezio allo stereotipo del militare squarquoio e Ildar Abdrazakov che ha fatto altrettanto nella chiave di basso, dove oggi ha pochi rivali per musicalità e senso dello stile. Tatiana Serjan ha affrontato con piglio indomito il disumano ruolo della furia vendicatrice Odabella, oscurando con la sua grinta il pallido spasimante, Giuseppe Gipali (Foresto).
Ma in Attila non ci sono soltanto gli atletismi vocali dei protagonisti. Colpiscono pagine ardite: la tempesta e l’alba, due poderosi concertati, e momenti di intima disperazione lirica (la seconda aria del soprano Odabella, Liberamente or piangi). Tinte e colori che non trovavano correlativo nella scena in bianco e nero pensata dal regista onnicomprensivo Pier Luigi Pizzi. Scale in marmo sotto una volta a tutto sesto dove le rovine di Aquileia, le prospettive lagunari, la tenda di Attila, erano un tutt’uno. Alla latitanza del clima cromatico, si sottraeva il solo Attila, sfoggiando una vestaglia rossa e pettorali a vista, in sfida alle rigide temperature.


Per fortuna c’era la musica, e in questo caso il suo condottiero Riccardo Muti, al quale si deve il trionfale esito della bella serata del romano Teatro dell’Opera.

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