Cultura e Spettacoli

Tra Rinascimento e '900 Il ritratto di Firenze dell'umanista Cecchi

L'omaggio alla sua città del critico che dominò per oltre trent'anni la scena culturale italiana

Luca Doninelli

La storia è la più strana delle materie. Fatta allo stesso modo di ciò che si prolunga da un'epoca all'altra e di ciò che si ferma dentro le soglie di un secolo, di un decennio, di una moda. Visito la mostra sul Cinquecento a Firenze, attraverso sale piene di nomi sconosciuti ai più (Santi di Tito, Jacopo Ligozzi, Jacopo Zucchi, Maso da San Friano e altri), in un'età in cui i grandi nomi percorrevano altre terre, altri padiglioni, e penso tra me: eppure il Cinquecento Fiorentino l'hanno fatto questi artisti qui - come Brunelleschi, Masaccio, Donatello, Beato Angelico, Botticelli hanno fatto il secolo precedente. Lo stesso sentimento provo alla lettura di Firenze, che raccoglie alcuni saggi della tarda maturità di Emilio Cecchi (1884-1966), e che ora Nino Aragno ripubblica per la cura del nostro Luigi Mascheroni, con una breve, affettuosa prefazione di Pietro Citati (pagg. 290, euro 20).

La storia, insomma, segue una propria linea democratica. C'è chi passa la soglia biologica di un'epoca e chi no, con l'avvertenza che lei, la storia appunto, è fatta tanto di quelli come di questi. Ed Emilio Cecchi appartiene, senza dubbio, a questi ultimi. Dominatore per trent'anni buoni della scena culturale italiana, seppe traghettarsi con discreto savoir faire dentro e poi fuori gli anni del fascismo, e per questo suo presunto trasformismo ha dovuto subire non solo l'oblio ma anche una certa damnatio memoriae. Ma se non fu tutto oro quello che rifulse negli anni del suo regno, così non è tutto fango quello che resta della sua opera scritta e non scritta. Lo dimostra bene questo bel libro dedicato da Cecchi alla città dove si svolse la prima parte della sua vita, e dove non smise mai di tornare e studiare. La scrittura di Cecchi, più millimetrica che affabile, si muove intorno ad alcuni nuclei tematici, che sono in qualche modo l'altra faccia del suo metodo, anch'esso fatto di visite, notazioni, riscontri, ritorni.

Bello che, anzitutto, il titolo Firenze si centri (non senza fughe in avanti e indietro) sul ritratto di due secoli contrapposti, il glorioso XV e l'oscuro XVI. Come se da quel chiaroscuro potesse emergere - e forse è così - il ritratto definitivo della città, nel quale possono prender posto anche le polemiche sulla storiografia marxista o sulla fretta colpevole dei ricostruttori dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Al centro di tutto, la magia del Disegno, che è arte, scienza e politica e tende fili che toccano Giotto e Donatello, passando per Leonardo, dai grandi umanisti e dalla scoperta - tecnica ma soprattutto antropologica e spirituale - della Prospettiva fino alle vertigini dell'amatissimo Pontormo, ai «mondi» che Galileo vide rotare «sotto l'etereo padiglion». In questo nodo - dove bellezza e conoscenza s'intrecciano fino all'identificazione - sta il cuore di una città che con Atene fu protagonista della più grande rivoluzione culturale della storia. E ben si comprende il lutto che la città non seppe elaborare una volta perduto lo scettro dell'Arte e del Sapere, una volta che poli più potenti ebbero attratto il meglio del suo ingegno per svilupparlo secondo linee nuove.

L'originalità di questo libro sta in una robusta immersione nella Firenze coeva all'Autore (dalla fine della guerra agli anni che precedettero immediatamente la sua morte), nella sua anima complessa, nel suo carattere contraddittorio che in qualche modo conserva i segni di ambedue le epoche, quella luminosa del XV secolo e quella, più problematica e via via dimessa, del secolo successivo. Questa complessità fiorentina, studiata da Cecchi sbrogliando con pazienza filo dopo filo, è un lascito intellettuale di grande valore. Morto nel 1966, anno della grande alluvione, Cecchi non assistette alla progressiva banalizzazione cui questa città eccessiva in storia e bellezza - un'eredità troppo difficile da portare con il dovuto aplomb - ridusse il proprio autoritratto, come se il deflusso delle acque avesse portato con sé anche una parte della sua memoria.

Delle dispute culturali che avevano infiammato Firenze (basterebbe fare il conto degli artisti e degli intellettuali citati da Cecchi e di quelli non citati) fino alla fine degli anni Cinquanta non sarebbe rimasto quasi più niente, a parte una enumerazione sempre più succinta e cartolinesca delle proprie glorie, dal Campanile di Giotto alle Giubbe Rosse.

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