Cultura e Spettacoli

La rivoluzione conservatrice del timido profeta "reggae"

Tradizionalista e innovatore, divo e antidivo. Un documentario da Oscar sul cantante giamaicano e le sue feconde contraddizioni

La rivoluzione conservatrice  del timido profeta "reggae"

La faccia e le treccine di Bob Marley si trovano dappertutto: su t-shirt e bicchieri, cappellini e statuette, bottiglie e braccialetti, e naturalmente sulle cartine per rollare la marijuana. Ma messi da parte paccottiglia e bric a brac, e fumi (non solo metaforici) hippie, i classici restano. E Marley è appunto un classico, come tale sempre attuale. Le atmosfere reggae si trovano in tutta la musica di oggi. Le sue canzoni sono state la colonna sonora delle proteste in Medio Oriente e Africa del Nord.

E a 31 anni dalla morte è in arrivo il primo documentario ufficiale sulla vita del cantante e apostolo della religione rastafari. Marley, del pluripremiato regista Kevin Macdonald (L’ultimo re di Scozia), lo vedremo nelle sale il 26 giugno, dal prossimo autunno sarà disponibile in Dvd. Notevole lo sforzo produttivo: troviamo filmati inediti concessi dalla famiglia e diverse interviste a personaggi vicini a Marley, tra cui spiccano i musicisti dei Wailers Neville Livingstone e Al Anderson, la moglie Rita, i figli Ziggie e Cedella. E non manca Chris Blackwell, il discusso fondatore della Island Records, l’uomo che ha esportato Bob Marley e il reggae dalla Giamaica in tutto il mondo.

Dall’insieme viene fuori un Marley serio. Timido ma determinato a portare avanti la sua musica dietro l’apparenza un po’ sbruffona nelle interviste. E soprattutto un uomo capace di «fabbricarsi» un’identità: culturale, esistenziale e religiosa. Nato a Sant’Ann, un borghetto di capanne in Giamaica «dove la sola luce di notte erano le lucciole», nel 1945, figlio di un bianco originario del Sussex, Norval, e di Cedella, sin da piccolo veniva preso in giro per la pelle più chiara della media. Il trasferimento a Kingston, per il quindicenne Robert che aveva iniziato a suonare una chitarra fatta in casa con fili elettrici al posto delle corde, vuol dire approdare a una scena musicale viva. La Giamaica aveva ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra nel 1962, e in giro c’erano già gli ingredienti che avrebbero portato al reggae: da una parte il rhythm ’n blues americano, e i gruppi come i Platters, dall’altra l’impronta africana: il calypso, il kuminà. Nonostante l’aura di musica delle origini, il reggae è un’invenzione tutta artificiale. Per un decennio Marley prova a sfondare nella sua terra, tra incursioni con la mazza da baseball per minacciare le stazioni radio che non volevano passare la sua musica, e concerti in un cimitero, di notte, per abituare il gruppo a non spaventarsi mai sul palco. Il successo che arriverà alla fine degli anni ’70 ha avuto una gestazione lunga.

Memorabile il capitolo amori: Marley, sposato con la pazientissima Rita, ebbe 11 figli da sette donne diverse, alcune delle quali sono state intervistate nel documentario di Macdonald. Un patriarca vecchio stile, in tema di rapporti con l’altro sesso: una sua fidanzata, l’ex miss mondo Cindy Breakspare, non riuscì a togliersi in tempo il trucco e lo smalto alle unghie che Marley non gradiva. Il rastaman le sbucò alle spalle e le disse, divertito: «t’ho beccata!».
Poi, possiamo ironizzare o meno sull’appartenenza di Bob Marley al movimento Rastafari, che vede in Hailé Selassié il nuovo Cristo del millenarismo afro. Una volta riuscita la scalata alle classifiche mondiali, la sua più grande impresa come attivista «politico» fu far stringere la mano sul palco, durante un concerto a Kingston nel 1978, ai due leader giamaicani rivali Michael Manley ed Edward Seaga, ponendo fine a una sorta di guerra civile in patria. Due anni prima, mentre preparava un altro concerto per pacificare gli animi, subì un attentato e fu colpito di striscio da un colpo di pistola. Anche in questo si misura la distanza di Marley dallo star system, pronto a qualsiasi buona causa purché a costo zero. Alla fine, dal documentario di Macdonald emerge la figura quasi «antipop» di un musicista, a modo suo, tutto d’un pezzo. Un artista, una musica, una religione.

Anche se non proprio One love.

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