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Roma aristocratica e plebea dal "Papa re" alla dolce vita

Fra Pio IX e Gioachino Belli, i paparazzi e l'inesauribile creatività Ritratti paralleli della città che periodicamente ridisegna se stessa

Roma aristocratica e plebea dal "Papa re" alla dolce vita

La Roma della cosiddetta mafia capitale e la Roma del Giubileo sono in ordine di tempo le ultime epifanie di una città che periodicamente ridisegna se stessa, ma conserva intatta quell'idea di eternità che le è propria e che solo a lei appartiene. Nei giorni più tragici della Seconda guerra mondiale, Silvio Negro scrisse uno struggente epitaffio della Roma papalina per dimenticare l'angoscia dei bombardamenti di cui la candida veste di Pio XII, sceso fra le macerie e il popolo di San Giovanni, sarebbe stata la più drammatica incarnazione. Settant'anni dopo, Stefano Malatesta oppone alle miserie del presente il fiammeggiante ricordo della città della sua adolescenza, quando Hollywood stava sul Tevere, i Musei Capitolini erano lo sfondo delle sfilate di moda e l'arte d'avanguardia pranzava nelle trattorie di via Margutta.Adesso che questi due libri escono in contemporanea (Seconda Roma. 1850-1870 di Negro, Neri Pozza, pagg. 495, euro 18,50; Quando Roma era un paradiso di Malatesta, Skira, pagg. 138, euro 15), chi li legge ha davanti a sé gli strumenti per affrontare al meglio il concetto di città eterna da cui si è partiti, inossidabile anche nei suoi momenti più bui, sempre e comunque rischiarata da una duplicità, cattolica e pagana, aristocratica e plebea, che resta un unicum e ne garantisce la sopravvivenza a tutto e a tutti.Principe dei vaticanisti, Negro non era un bigotto baciapile e il suo amore per l'ultimissima Roma papale, quella di Pio IX fra gli anni della Repubblica Romana e la conquista piemontese, non ha niente a che vedere con l'apologia del potere temporale o la nostalgia del Papa Re. Il fascino di quella Roma risiede semmai in due elementi. Il primo, che conserva tutta la sua attualità, è spiegato così: «Una città che si trova ad ospitare contemporaneamente cinquantamila visitatori, cinquantamila pellegrini delle fedi più disparate, concordi unicamente nella necessità di visitare quella che essi chiamano la Niobe delle nazioni, di respirare la sua aria, di essere partecipi del suo clima, ha certo una vocazione che è unicamente sua: può chiamarsi l'Urbe». Il secondo ha a che fare con Gioachino Belli, l'immortale autore dei Sonetti romaneschi. È Belli a erigere al popolo romano il più vero monumento, ma è quello stesso Belli nella vita cattolico praticante e non laico volterriano, papalino e non liberale... Non c'è contraddizione, spiega Negro, e non ha senso inventarsi un Belli cospiratore e patriota risorgimentale nascosto dietro il dialetto. Più semplicemente, e sulle orme del milanese Carlo Porta, sarà proprio la lingua romanesca a rivelargli «il popolo più ricco di motivi che fosse al mondo, quel popolo violento ed estroso, altero e bigotto, superstizioso ed eloquente che viveva nella pittoresca Roma del primo '800. E che curioso contrasto tra i motivi religiosi continuamente esaltati e le debolezze umane tanto spesso preponderanti; che ricchezze di materiali già pronti nella satira quotidiana che derivava proprio da quel contrasto».Belli, insomma, immortalò in letteratura ciò che allora c'era nella vita quotidiana e che poi sarebbe sopravvissuto ai tempi. Ancora negli anni Venti del Novecento, racconta Negro, una baronessa tedesca allieva di Rodin, mentre era alle prese con il ritratto del figlio di una fruttivendola, si vide opporre una sola frase ai suoi continui caro pampino, caro pampino e al suo affannarsi in smorfie e moine di simpatia: «In un silenzio di gelo egli disse chiaramente: Va a morì ammazzata». Mentre la fruttivendola si scusava e inveiva contro il marmocchio, «l'allieva di Rodin era rapita. Ci disse poi che in quel momento aveva sentito veramente quale doveva essere l'animo dei romani antichi». Trent'anni più tardi, lo spirito di quel moccioso trasteverino doveva essere trasmigrato nel corpo di Peppino Amato il quale, racconta Stefano Malatesta nel suo libro, non solo fu uno dei cinematografari più mitici della Roma anni Cinquanta, ma quando doveva fare dei contratti ad attori stranieri, non sapendo l'inglese «usava frasi come What cazzo do you want e al momento della firma diceva You sign, I sign, you don't sign allora diche you vaffancul»...Rispetto a Negro, professionalmente cresciuto fra L'Osservatore Romano e Corriere della Sera, Malatesta appartiene al mondo scalfariano di Repubblica e dintorni, celebre fra l'altro per la copertina dell'Espresso anni Cinquanta intitolata «Capitale corrotta = nazione infetta», sull'inchiesta di Manlio Cancogni, ma in Quando Roma era un paradiso non c'è né facile moralismo né sterile vittimismo, bensì il racconto di quello che resta un periodo straordinario, «l'epoca più divertente e creativa nella storia d'Italia. Solo ora che questa realtà è scomparsa ci rendiamo conto di quanto abbiamo perso». È allora che Roma sembra un'immensa tavola apparecchiata, dai Castelli a Ostia, a Fregene, ai bar di piazza del Popolo; Monica Vitti, musa di Michelangelo Antonioni, veniva soprannominata Vitti d'arte/ vitti d'amore; il giornalista Paolo Monelli, anziano marito di Palma Bucarelli, direttrice del museo d'arte moderna, era Palma il Vecchio, mentre l'amante di lei era Palma il Giovane; lo scrittore Alberto Moravia era l'Amaro Gambarotta; il poeta Sandro Penna l'Incantatore di Sergenti e la città veniva definita da Ennio Flaiano l'unica capitale mediorientale a non avere un quartiere europeo... Il termine paraculo era nato all'indomani della fine della guerra e stava a indicare i pantaloni imbottiti dei ragazzini quindicenni che saltavano sui camion in salita per svuotarli delle merci alleate, e poi per estensione passerà a indicare una filosofia di vita. Erano in molti a mettersi in via Margutta un fazzoletto rosso al collo e, da paraculi, fingersi artisti dopo essersi finti partigiani. Una rivista scrisse allora che nella sola Roma c'erano quattromila fra pittori e scultori...Oltre al popolo, c'è un altro filo rosso che collega la Roma papalina di Negro alla Roma paradisiaca di Malatesta e riguarda la particolare aristocrazia dell'Urbe, per la quale le differenze sociali non sono mai state barriera, «ma familiarità inesplicabile» per gli stranieri, già nell'Ottocento registrata e spesso confusa nel Novecento con la grossolanità, che è invece un'invenzione tipicamente romana dovuta, scrive Malatesta, a «un certo eccessivo amore per il realismo in tutte le forme che porta a essere insofferenti di maniere e di pose, di recite e di birignao, un modo di sfottere le tendenze degli italiani ad affidarsi a nomi e gusti stranieri come superiori e più chic». Ci sarà un motivo per cui, gastronomicamente parlando, la Francia ha la pêche Melba, in onore della cantante lirica Nellie Melba, e i romani la pajata Anitona, in onore dell'attrice Anita Ekberg... Del resto, già Gogol' aveva sottolineato come fossero «le incursioni degli stranieri» a generare «per le locande e per le strade un'abbietta classe di persone su cui spesso il viaggiatore giudica dell'intero popolo». E sono i turisti i commensali più felici ai tavoli di quei ristoranti tipici dove al suono di Va pensiero vengono accolti con un testo che recita «Vaffanculo/ sull'ali dorate»..

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