Cultura e Spettacoli

Santoro, un "Robinù" per i piccoli della camorra

Il film-doc sui baby boss è appassionato, ma senza sentimentalismi. La Rai? "Logica buonista"

Santoro, un "Robinù" per i piccoli della camorra

dal nostro inviato a Venezia

Robinù è il soprannome di un piccolo criminale napoletano, famiglia sfasciata, quasi analfabeta, entrato a vent'anni a Poggioreale, dove ne resterà altri 16. «Perché ho fatto i reati? Quando non hai mai avuto niente, vuoi avere tutto subito. Femmine, potere, soldi». A suo modo, ha una sua filosofia. Gli amici lo venerano, le fan gli mandano lettere profumate in cella, la madre piange, il padre dice che è un ragazzo sveglissimo. Lo chiamano così, Robinù, perché quando era latitante aiutava le famiglie del quartiere bisognose.

Rubando qualcosa al cinema per dare più sostanza a quello che rimane un lungo reportage giornalistico, Michele Santoro ha presentato ieri a Venezia il suo film-doc Robinù che racconta il nuovo fenomeno dei baby boss della Camorra, i giovani criminali dei rioni napoletani che si fanno la guerra dopo il declino dei vecchi «capi». Il tutto mentre i giornali sono disinteressati, lo Stato accetta di farsi sostituire da un più efficiente welfare criminale, noi è la lezione-j'accuse di Santoro facciamo ipocritamente finta di nulla, e la Rai (ecco la stilettata) snobba i documentari di denuncia e «resta schiacciata su una logica della rappresentazione della realtà ordinata, educativa, ispirata ai buoni sentimenti».

Con passione ma senza sentimentalismi, Robinù (davvero bello, tanto che qualche collega malignava che è per questo che non può averlo fatto Santoro), mette in scena giovani svezzati a nichilismo e kalashnikov («Quando hai in mano il Kalash non hai paura della morte»), cresciuti in un territorio abbandonato dalle istituzioni, in cui la famiglia è l'unica cosa che conta, e dove il carcere è solo la continuazione della casa con altri mezzi: tra l'uno e l'altra non c'è distanza. I fratelli maggiori ti insegnano a sparare, i padri sono «dentro» e le madri dopo aver preparato i figli più piccoli per la scuola spacciano sull'uscio per mantenere tutti. A 13 anni hai una pistola, a 17 il primo figlio, a venti la condanna definitiva, a 40 sei nonno. O sei già morto. Ma ecco la domanda di chi è la responsabilità?

Come gli studenti che finiscono per innamorarsi, con poco distacco critico, dell'oggetto della propria tesi, così Santoro e le sue sceneggiatrici (Micaela Farrocco e Maddalena Oliva) scivolano a volte su una compartecipazione eccessiva verso gli spietati baby killer. «Voi chiedete la tolleranza zero si rivolge Santoro al Giornale in conferenza stampa ma dimenticate che sono minorenni. Con una diversa coscienza critica, una diversa responsabilità. Certo, vanno puniti. Ma tanto si puniscono da soli. Si danno loro stessi la pena di morte. Finiscono sparati».

Tra sparatorie, fan page su Facebook e la nuova moda delle barbe stile Isis («Questi mica vedono Gomorra, non ce l'hanno Sky in cella, semmai imitano i guerriglieri»), il centro storico di Napoli si trasforma («Ecco il senso del mio film») in un'enclave in cui lo Stato ha abdicato alle proprie funzioni.

E a pensarci bene solo in una Mostra del cinema il quartiere Forcella può confinare con il Texas popolato dai cannibali reietti di The Bad Batch. Anche i piccoli camorristi sono un «lotto difettoso»?

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