Cultura e Spettacoli

Scorsese divo romano: "Dai maestri italiani ho imparato la verità"

Il grande regista racconta come le pellicole di Pasolini e Rossellini influenzarono i suoi film

Scorsese divo romano: "Dai maestri italiani ho imparato la verità"

da Roma

Signore e signori: Martin Scorsese. E al quinto giorno la Festa raggiunge il suo zenith con il re di Hollywood, che alla fine di un caloroso «Incontro Ravvicinato» con il Direttore Artistico Antonio Monda, viene omaggiato con il premio alla Carriera, consegnato da un altro maestro, Paolo Taviani. Standing ovation, urla, applausi frenetici quando, sullo schermo, compare il magnifico montaggio dei film scorsesiani: ululati per Taxi Driver e Il lupo di Wall Street: segno che il grande Martin è amatissimo e conosciutissimo. Soprattutto da noi, dove il suo genio parla italiano. Perché i nove film scelti per l'indimenticabile serata dal cineasta cinefilo, rimandano alla nostra cultura.

Si comincia con Pier Paolo Pasolini e il suo Accattone (1961), un classico neorealista che ha cambiato la vita di Martin. «L'ho visto per la prima volta al festival di New York, nel 1963 o '64. Un'esperienza potente. Il primo film che vidi, fu Fronte del porto, del quale conoscevo i personaggi. Ma quello era cinema. Accattone, invece, vita vera: qui sono riuscito a identificarmi. Ci sono tomi su Pasolini, ma io non lo conoscevo. E il suo film fu uno choc. Un lampo», racconta lui, elegante in smoking, rilassato mentre conversa in poltrona, spalle allo schermo, proprio come se fosse nel salotto di casa sua. Che cosa l'ha colpito di Accattone? «La santità dell'animo umano: accattone muore tra due ladri e il magnaccia che lo benedice, si fa la croce al contrario. Tra l'altro, l'uso delle musiche di Bach, nel film, è stata una lezione, per me. L'ho applicata nel mio Casino. Per me, le persone più infime sono più vicine a Cristo, rispetto agli altri», riflette l'artista, atteso sul tappeto rosso come il dio di Cinelandia.

Naturalmente anche Roberto Rossellini ha un posto privilegiato nel cuore di Scorsese, del quale Martin sceglie La presa del potere di Luigi XIV (1966). Pellicola che ha un nesso emotivo diretto con la sua storia personale e con la sua famiglia. «A cinque anni, guardavo la tivù a casa mia. Era il 1948, o il 1949 e passavano Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, film che anche ora sono nelle sale americane. Non so perché, ma quello per me era un mondo reale: vedevo i personaggi in tv, ma a me sembravano veri. Non mi parevano film, ma cose che si svolgevano a New York realmente», spiega l'autore, da anni dedito al restauro cinematografico delle pellicole per lui più significative. «Insieme a De Sica e a Zavattini, Rossellini ha reinventato il cinema. Intorno ai sessanta, egli si dedicò anche ai film didattici, girando una serie di film storici, dei quali questo da me scelto è il primo», dichiara Martin. Per poi narrare che Rossellini, da lui casualmente incontrato a Roma, nel 1970, «rinnegò La presa del potere di Luigi XIV, rivelando che a lui non interessava l'arte, ma soltanto l'istruzione: voleva educare», ricorda l'autore di Toro scatenato. Alla cui base c'è «proprio questo andare dritto all'essenziale, tipico di Roberto Rossellini. Un'essenzialità, la sua, che ho voluto riproporre anche in Toro scatenato e Re per una notte». Quand'è il turno di commentare Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, scritta e sceneggiata da Cesare Zavattini, arriva l'omaggio più commosso al problema della vecchiaia.

Un problema che riguarda anche il grande regista, la cui moglie Helen Morris, malata di Parkinson, egli assiste amorevolmente. Un grande film, che preferisco a Ladri di biciclette, in quanto completamente disadorno» dice Marty, che coglie il messaggio politico e sociale del capolavoro, con l'espressione: «Siamo tutti vittime della nostra mortalità». Frase che Scorsese avrebbe appreso da suo padre, facendola sua.

Applausi a scena aperta, grande concentrazione e commozione finale con i due maestri, Scorsese e Taviani, a chiudere la serata-omaggio.

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