Cultura e Spettacoli

Scrittori postminimalisti? No, neobanali

Da Leavitt a McInerney, gli autori Usa anni '80 non riescono a rinnovarsi

Massimiliano Parente

Quale fine ha fatto quel gruppo di giovani autori americani degli anni '80 che Fernanda Pivano etichettò come «postminimalisti»? Attenzione, già quando leggete «post» abbiate dubbi, dopo decenni di Lyotard e Harvey e Barthes e Eco non si è ancora riusciti a capire cosa volesse dire. In ogni caso, come ogni gruppo, c'è chi resta al palo (basti vedere il nostro Gruppo 63, è rimasto solo il grande Arbasino, oppure, recentemente, lo sfigatissimo gruppetto italiano dei TQ, morto sul nascere), chi cerca di riproporsi, chi è un outsider e prende il volo, come Duchamp con i dadaisti. Il modello ispiratore dei postminimalisti era più o meno Raymond Carver (e Hemingway, ma questa è più un'invenzione della Pivano, capace di mettere Hemingway ovunque), mentre Bret Easton Ellis si staccò dal gruppo con un capolavoro, American Phsyco. Del quale lui stesso restò vittima, era talmente bello da essere insuperabile. Almeno per lui. Tra tutti, Ellis è stato il più onesto, dopo American Phsyco è andato avanti con pochissimi libri e infine, dopo qualche anno, è purtroppo tornato sui suoi passi con un remake in chiave adulta di Meno di Zero (Imperial Bedrooms, minestra riscaldatissima, gli stessi personaggi ma adulti, fanno e pensano le stesse cose). Ora si dedica a sceneggiare film e a twittare perfino contro David Foster Wallace, che non apparteneva a nessun gruppo, solo al suo genio, e ne aveva così tanto da suicidarsi, impiccandosi con un romanzo immane e incompiuto in uno scatolone. Siccome Wallace scriveva opere assolute come Infinite Jest, fu bollato come massimalista (e allora Dostoevskij, Joyce, Proust, Gadda, cosa erano? Premassimalisti?). David Leavitt, di contro, diventò l'esponente di un minimalismo gay, coniugando omosessualità, sentimentalismo e l'AIDS (miglior romanzo, forse, Eguali amori), e dopo continuò su un sentierino romanzesco-gay sempre più stereotipato.

C'era, poi, Jay McInerney, dalla Pivano molto amato e osannato, il quale esordì con Le mille luci di New York e che esce adesso, in Italia per Bompiani, con l'ultimo romanzo, La luce dei giorni, chiudendo la trilogia iniziata con Si spengono le luci (ma quante luci, abita in un luna park?) e proseguita con Good life. Il problema di McInerney è essere rimasto insabbiato nella retorica della fine del sogno americano, nella descrizione stanca delle vite comuni dell'upper class. I protagonisti, Russell Calloway, editore, e sua moglie Corrine, vivono una vita agiata ma insoddisfatta, per le solite ragioni già vivisezionate dai grandi scrittori modernisti e dell'800, da Flaubert a Tolstoj, da James a Proust. Grandi feste ipocrite di beneficenza, grandi amori clandestini sullo sfondo del post 11 settembre e della crisi economica. È il paraculismo standard per sembrare impegnati: racconti una storia noiosa ma la colpa è del contesto sociale.

In generale non se ne può più di queste coppie che annaspano in se stesse con la scusa della critica al capitalismo, con tanto di descrizioni di amplessi tra amanti su cui ci si addormenta, tipo: «Jeff la solleva tra le braccia e la porta sul letto senza staccare le labbra dalle sue. Si divincolano dai vestiti quasi fossero in fiamme, e lei gli slaccia a strattoni la cintura mentre lui cerca a tentoni il gancetto del reggiseno... Lui ha ancora i pantaloni intorno alle caviglie quando, piegato su di lei, la penetra». Un miracolo che sia riuscito a penetrarla, con tutto questo andare a tentoni e i vestiti in fiamme e strattoni e labbra incollate.

Se fosse la descrizione di un rapporto sessuale di Nanni Moretti ci starebbe, purtroppo è solo il sesso ai tempi del post-postminimalismo, il neobanalismo.

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