Cultura e Spettacoli

"Scrivo come cucino e impiatto tutti gli indizi"

Niente scrivania, inventa tra i fornelli: "Le mie storie devono sempre cuocere a fuoco lento"

"Scrivo come cucino e impiatto tutti gli indizi"

Donato Carrisi ha dimostrato in molti campi di essere un maestro della suspense italiana con opere come Il suggeritore, Il tribunale delle anime, L'ipotesi del male e La ragazza nella nebbia. A poche settimane dall'uscita in libreria de L'uomo del labirinto (Longanesi) svela alcuni segreti del suo mestiere.

È vero che la sua officina letteraria è in cucina?

«Non scrivo solo in cucina, ma è il posto che prediligo. Scrivere è come cucinare. Da una parte hai in mente il gusto che puoi dare alle tue storie, dall'altra ti poni il problema di come le percepiranno i lettori. Devi sempre scegliere bene gli ingredienti come un cuoco che vuole rendere al meglio il piatto che sta preparando».

Ma quale ricetta applica nei suoi romanzi?

«Uso ingredienti basici, facilmente riconoscibili. Poi aggiungo qualcosa di inaspettato che sorprenda me stesso e i lettori. Qualcosa di prezioso, ma non per forza esotico e introvabile».

Ha mai allungato il brodo, narrativamente parlando?

«No, perché i lettori se ne accorgerebbero».

Ha mai provato panico perché non riusciva a finire un romanzo?

«Le racconto un episodio. Fuori era buio e si stava preparando una tempesta. Io, in casa, ero trovato bloccato sulla pagina. Ho avuto il coraggio di uscire affrontando la pioggia e sono andato a cercare la carne giusta per cucinarmi il brodo per i tortellini. Solo dopo aver preparato il brodo ho cominciato a rilassarmi. Mi sono seduto, ho mangiato e mi sono accorto che il resto della storia era già cotto in tavola».

Che cosa trova indigeribile, nei thriller?

«Bisogna essere onesti con i lettori. Mettere nel piatto tutti gli indizi, permettere loro di comprendere le vicende e individuare i colpevoli anche molto prima del finale. Non amo chi bara, né in letteratura né al cinema».

Anche Jeffery Deaver è solito scrivere i suoi thriller in cucina, appendendo le story line al frigorifero...

«A casa mia, sul tavolo ma anche non lontano dai fuochi potete trovare studi criminali dei personaggi, articoli e libri che uso per la documentazione. Sembra una situazione disordinata, ma non lo è. Anche Stanley Kubrick usava la cucina per realizzare i suoi film. Era una persona caldissima e molto ironica che non voleva essere fraintesa. Sembrava un orso, ma voleva parlare attraverso le sue opere come un cuoco dovrebbe parlare attraverso le sue ricette».

I segreti della cucina e quelli dei thriller non andrebbero svelati...

«Se ne può parlare, ma conviene tenersi sempre un ingrediente segreto da parte. La mia ricetta è probabilmente comprensibile, ma so che il risultato finale dipende da come mescoli gli ingredienti. E non tutti sanno farlo».

Le sue storie vengono rosolate in fretta o bruciate a fuoco lento?

«Cotte a fuoco lento, soltanto così possono essere efficaci».

Che cosa c'è di lei nelle sue storie?

«Nel mio ultimo romanzo è finito anche un po' del mio sangue. Mentre lo stavo scrivendo in cucina mi sono tagliato un dito. Ho sparso sangue ovunque, anche sul computer. Tornato dal Pronto Soccorso mi sono accorto che un pezzo di dito era finito nel ragù».

È vero che i suoi romanzi nascono in movimento?

«Amo essere indisciplinato e non riesco a stare mai seduto per troppo tempo a una scrivania davanti a un computer. Spesso scrivo in piedi. Quando finisco mi fanno male le gambe, mi sembra di aver camminato per ore».

In un libro preferisce trovare personaggi, frasi o storie memorabili?

«Io sono per le storie indimenticabili, sono loro a fare i personaggi e le frasi che pronunciano. Se le estrapoliamo dal contesto spesso possono perdere di significato. Pensi a La strada di Cormac McCathy. È la situazione incredibile in cui si trovano il padre e il figlio protagonisti della storia a renderli eroi e a rendere memorabili le situazioni apocalittiche alle quali devono sopravvivere».

Che rapporto ha con la paura?

«Forte e credibile: se non mi spaventassi mentre scrivo certe pagine non si spaventerebbero neanche i lettori. Devi avere sperimentato certe sensazioni per poterle raccontare».

Quale ricetta ha applicato ne L'uomo del labirinto?

«Mi sono chiesto quanto spaventoso fosse entrare in un labirinto e perché la gente lo faccia. Qualcosa in agguato là dentro è pronto a ghermirti. Anche se riuscirai a uscirne ci sarà sempre qualcosa che esce con te».

E le sue storie quale suono hanno?

«C'è sempre una colonna sonora specifica in ogni mio romanzo. Un mio amico fa il compositore e ogni volta mi prepara speciali compilation che possano suggestionarmi durante la scrittura. Per L'uomo nel labirinto ho scelto una serie di brani che dovevano essere quelli che ascoltava il personaggio di Bruno Genko. Non so se mi capiterà di riascoltarle in futuro...».

E la ricetta per girare il suo primo film, La ragazza nella nebbia?

«Ho voluto omaggiare le atmosfere tipiche dei thriller che più ho amato degli anni '90: da I soliti sospetti a Il silenzio degli innocenti da Seven a The Game. Ma volevo anche che gli ambienti presentati fossero caldi e accoglienti per gli spettatori. Ho chiesto agli esperti delle location di trovarmi boschi che non apparissero bui, freddi e nordici ma ricordassero la foresta in cui si addentra Cappuccetto Rosso».

È stato difficile adattare il romanzo per il cinema?

«No, perché ho iniziato a dirigerlo scrivendo e ho finito di scriverlo girando».

Che cosa dobbiamo aspettarci da lei?

«Dicono che dirigerò un altro film e che sicuramente firmerò un altro romanzo. Non farò un altro programma tv. Piuttosto che stare in scena preferisco stare dietro la macchina da scrivere e quella da ripresa».

Perché all'estero la amano così tanto?

«Perché mi trovano molto italiano e questo mi riempie di orgoglio.

Usano spesso la definizione di italian litterary thriller per i miei romanzi ed è curioso che invece da noi tutti sostengano che le mie storie non sembrano scritte da un italiano».

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