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Un secolo dalla nascita di Solzenicyn. Così i gulag stritolavano l'Urss

Un secolo dalla nascita di Solzenicyn. Così i gulag stritolavano l'Urss

La parola più utilizzata da tutti è Gulag. Il termine, che andrebbe scritto GUlag, in realtà è l'acronimo dei termini russi Glavnoe Upravlenie ispravitelno-trudovych lagerej e indicherebbe la «Direzione principale dei campi di lavoro correttivi», ovvero il ramo della polizia politica dell'Urss che gestiva i campi di lavoro forzato. Del resto in occidente questa parola è stata resa universale dai libri (a partire da Arcipelago Gulag) dello scrittore e Nobel Aleksandr Solzenicyn di cui si sono appena celebrati i cent'anni dalla nascita (11 dicembre 1918). Ma una parola così breve non rende esattamente l'idea dell'immensità e della varietà del sistema concentrazionario sovietico. Istintivamente ci viene da immaginarlo utilizzando il più noto aspetto degli infernali lager nazisti. Ma sono declinazioni molto diverse, seppure altrettanto aberranti della follia umana. Chi nel tempo lavorò a costruire il Moloch delle prigioni politiche comuniste sfruttò al meglio le caratteristiche e la storia di quella che un tempo era stata la Russia degli Zar. Gli enormi spazi, che spesso consentivano detenzioni senza filo spinato, il gelo senza speranza, il caldo torrido, la sporcizia e le malattie vennero usate come arma lenta, ma infallibile, per piegare o eliminare gli oppositori. Nessun sistema concentrazionario al mondo ha mai sfruttato così bene la forza del niente. Un niente capace di avere effetti permanenti soprattutto nelle menti dei superstiti. Come ha scritto un altro Nobel bielorusso, Svetlana Aleksievich: «Se una persona è stata nel Gulag sovietico, appena uscita non può essere libera, non sa cosa voglia dire la libertà».

E in questa enormità di morte - secondo alcune fonti le morti totali attribuibili ai gulag sono 60 milioni - è persino difficile mettere assieme una descrizione chiara. Il Moloch è troppo grande, si finisce sempre per guardarne solo un pezzo. Proviamo comunque a razionalizzare ciò che non può essere razionalizzato o almeno a storicizzarlo. Il nucleo del sistema di campi di lavoro forzato (ma in questo caso lavoro è sinonimo di tortura) Lenin lo ereditò dalla polizia zarista. I campi venivano chiamati katorga e ci finivano scrittori anticomunisti, come Ossendowski, e anche i comunisti. Lenin a parole aveva ovviamente promesso di eliminarlo. Arrivato al potere lo trovò comodo ed iniziò ad utilizzarlo sistematicamente. Ovviamente però era ancora nulla rispetto al «perfezionismo» staliniano. Nel 1931-32 i gulag, per lo più collocati nel gelo siberiano, contavano almeno 200mila prigionieri; nel 1935 i reclusi erano già saliti alla cifra folle di un milione. Dopo la Grande Purga staliniana del 1937, quando ormai chiunque in Urss era stato trasformato in un potenziale delatore, erano quasi due milioni. Ognuno poteva essere accusato di qualunque cosa. I piani quinquennali fallivano? Per giustificare il tutto bastava trovare «corrotti» e «sabotatori». La cattiva pianificazione, la sottoproduzione, i raccolti scarsi: tutto si poteva risolvere semplicemente mandando a morire di stenti sempre più persone. Tutti sapevano che una volta nelle mani della Nkvd la cosa migliore era confessare qualcosa e indicare degli altri «colpevoli». Tanto una confessione a colpi di tortura l'avrebbero ottenuta comunque. Del resto i gulag e tutti i campi simili si trasformarono anche in una riserva infinita di manodopera da sfruttare sino alla morte per realizzare qualsiasi tipo di opera. Come esempio si può prendere la canalizzazione del Grande Volga nota anche come Piano Marininskaja. Solo per realizzare quei canali e quelle dighe morirono milioni di persone.

Non bastando le basi politiche, Stalin pensò di mischiare la sua ferocia alle discriminazioni etniche. Sbagliava Primo Levi quando scriveva: «Il Gulag fu prima di Auschwitz è vero; ma non si può dimenticare che gli scopi dei due inferni non erano gli stessi. Il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale; non divideva l'umanità in superuomini e sottouomini; il secondo si fondava su un'ideologia impregnata di razzismo». Negli anni Trenta Stalin abbandonò l'internazionalismo e iniziò a sistemare per le feste quelli che considerava stranieri e potenziali spie in Urss. Bassissimo costo per sostenere il faticoso sviluppo dell'economia sovietica.

Durante gli anni '30 il terrore staliniano colpì anche le comunità straniere - per quanto comuniste - che vivevano in Unione Sovietica. Toccò anche ad alcune centinaia di italiani, per lo più emigrati politici giunti in Urss per sfuggire al fascismo. Arrivarono sognando il paradiso comunista, morirono o fucilati o dopo atroci sofferenze nei campi di lavoro. Feroce e beffarda la sorte degli «italiani» di Kerc', in Crimea: 150 famiglie, originarie della Puglia e trasferitesi in Russia all'inizio dell'800, furono deportate in Kazakistan e in Siberia. Non mancarono nemmeno le purghe anti ebraiche, e nel pieno degli anni Cinquanta. Il 13 gennaio 1953, il governo sovietico annunciò al mondo che 9 medici del Cremlino, 6 dei quali dai nomi ebraici, avevano ucciso tra il 1945 e il 1948 alcuni stretti collaboratori di Stalin, per ordine degli imperialisti e dei sionisti. Era il segnale che Stalin stava per lanciare un nuovo Terrore. Nelle settimane a seguire i giornali non fecero che riferire di ebrei arrestati, licenziati o giustiziati per «crimini economici» e «spionaggio». Il piano era chiaro: deportare due milioni di ebrei russi in Siberia e in Kazakistan. La Pravda pubblicò un «appello» in cui si supplicava il «Padre di Tutti i Popoli» affinché deportasse gli ebrei nei territori orientali, «per sottrarli alla giusta collera dei Popoli»... Non ci si arrivò solo per la morte di Stalin.

Ma nemmeno questo bastò a far sparire i campi di lavoro: gli ultimi hanno chiuso i battenti solo negli anni Ottanta.

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