Cultura e Spettacoli

Si aprono i caveau e le banche celebrano il trionfo dell'arte

Da Giotto a Morandi, ecco le opere "nascoste" di fondazioni e istituti di credito italiani

Si aprono i caveau e le banche celebrano il trionfo dell'arte

«Abbiamo una banca!», la funesta esclamazione che compromise un importante leader della sinistra di qualche anno fa può essere riformulata in quella più remunerativa (e non solo sul piano materiale): «Abbiamo un museo!».

L'ideale titolare di questa affermazione non è un politico ma, simmetricamente, un banchiere, che osservi, in un percorso storico che rimonta al secondo dopoguerra, l'incredibile quantità di opere acquisite da fondazioni e istituzioni bancarie, in una accelerazione volta all'obiettivo di compensare una carenza dello Stato nella integrazione delle collezioni pubbliche comunali, provinciali, regionali. Migliaia di dipinti e sculture sono così entrati nel patrimonio di istituti a parziale vocazione museale, in palazzi restaurati per rappresentanza.

La mostra Da Giotto a Morandi. Tesori d'arte di Fondazioni e Banche italiane ospitata dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia a Palazzo Baldeschi di Perugia (dall'11 aprile al 15 settembre) dà conto di tale ricchezza. Proprio la Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia ha finanziato e pubblicato una meritevole serie di cataloghi di tutti i musei della Regione Umbria. Una azione a due punte, dunque, solo marginalmente percepita, e che comunque potenzia il nostro patrimonio artistico e la sua consapevolezza. E alcune città italiane sono state dotate di nuovi musei autonomi con aperture diversamente regolamentate: la Pinacoteca della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Cesena, le Gallerie d'Italia di Milano, il Museo di Palazzo Ricci a Macerata, Palazzo Montani Antaldi di Pesaro, i palazzi storici del percorso di Genus Bononiae-Musei nella Città a Bologna, il Museo del Divisionismo a Tortona, Palazzo Blu a Pisa, la Fondazione Roma Museo, Palazzo Branciforte e Villa Zito a Palermo. In altri casi le istituzioni hanno concesso in comodato alcuni dei loro tesori ai musei pubblici: tra le opere in mostra, tavola di Beato Angelico della Fondazione di Firenze al Museo di San Marco, i dipinti di Dosso e di Cagnacci della Fondazione Carife alle Gallerie Estensi di Ferrara, il Cristo Salvatore di Matteo Civitali della Fondazione di Lucca al Museo Nazionale di Villa Guinigi. A Pistoia, invece, acquisita dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucchesia, risiede la collezione di Piero Bigongiari, che fu per tutti noi una viva palestra di studi sulla ancora oscura pittura del Seicento fiorentino. Di lì viene uno struggente e morboso Cristo in estasi, con un calice traboccante sangue che va oltre ogni preraffaellita e simbolista per declinazione peccaminosa. Neanche i più tormentati lombardi arrivano a tanto, un Cristo fratello dei transgender, ammaccato, straziato, pentito.

La mostra, il museo, pur ricco di grandi maestri, Giotto, Beato Angelico, Perugino, Pinturicchio, Guido Reni, Guercino, Mattia Preti, Pellizza da Volpedo, Morandi, è un viaggio alla scoperta di maestri non minori ma nascosti, defilati, cavillosi nel loro impervio e tortuoso magistero, come Matteo da Gualdo, peraltro in casa, nelle collezioni della Fondazione di Perugia. Potente, addirittura michelangiolesco, il Sapiente incandescente di Dosso Dossi. Seducente l'Onfale di Ludovico Carracci. Superba, nella sua originalissima maniera, la notturna Deposizione di Cristo di Ferraù Fenzoni, attraversata da lampi e turbolenti pensieri, come nella frustrata aspirazione a essere uno dei campioni del Sacro Monte di Varallo, un Tanzio altrettanto sfrenato ma meno solido, tempestoso, esposto a venti della mente prima che atmosferici. Fatica a seguirlo Camillo Procaccini, con la sua Incoronazione di spine, di letteraria maniera, di esteriore tormento. Per sfociare entrambi nel compiuto caravaggismo del Maestro della Flagellazione di Cesena, presente con la sua opera eponima, dolente, classica e severa.

Dentro e oltre Caravaggio ci porta Rutilio Manetti, con la Presentazione al tempio, uno dei più potenti dipinti del Seicento italiano, naturalista e barocco, umano e teatrale, lirico e retorico, in grado di sostenere il confronto con l'energia compressa di Georges de La Tour. Da questa maestosa composizione si declina, negli stessi anni, verso la più intimistica e atmosferica Sibilla, malinconica e meditativa, del Guercino uno dei momenti più intensi e vivi del pittore emiliano, come Manetti oltre Caravaggio ma senza rinunciarvi. Lo stesso può dirsi anche per la Vergine addolorata di Simon Vouet, teatralmente pensosa. E, nello stesso filone, metterei anche l'emozionante Giuseppe con il Bambino di Battistello Caracciolo, con quell'atteggiamento di protezione del padre verso il figlio che allontana ogni ipoteca devota trainata dal soggetto: qui la verità umana dell'affetto paterno è manifestata nell'abbraccio con infinita naturalezza. Un apice di sentimentalismo e verità.

Ai margini del caravaggismo, tra le novità di questa ricognizione del patrimonio delle Fondazioni, c'è il potente Suicidio di Socrate, errante nell'attribuzione tra l'incredibile Burrini e l'improprio Assereto, e oggi ancorato finalmente al suo vero autore: Giovan Battista Beinaschi. A metà del Seicento si impongono dipinti monumentali, classici, tanto diversi nella concezione statuaria, aulica, esempi di moderno «bello ideale»: la Sacra famiglia di Gian Domenico Cerrini e l'Allegoria del Tempo e della Verità di Pietro Liberi. Di classicismo barocco si può parlare davanti a esiti come questi.

Il Settecento si presenta con una purissima e accademica Sibilla di Marcantonio Franceschini, con l'indimenticabile angioletto che porge la penna d'oca, e un fervido Balestra rococò. Bellissimo il controluce di Minerva nel Giudizio di Paride di Giovanni Antonio Pellegrini. E di bella e ariosa stesura il San Paolo del maestro di Tolmezzo, Nicola Grassi. Un bel ritrovamento è L'indovina del lucchese Giovanni Domenico Lombardi, come un Hogart italiano. Tra le visioni fantastiche dei Poli, animati capricci, si distinguono le placide vedute dell'Adige a Verona di Gaspar van Wittel e di Bernardo Bellotto, tappe di un imprescindibile Grand Tour.

La sequenza delle opere della fine dell'Ottocento e del Novecento più alto è travolgente: dalla severa e dolente Donna dell'emigrato di Pellizza da Volpedo ai dolenti Giorni ultimi di Angelo Morbelli con una mirabilissima luce strisciante, livida e agghiacciante. Non poteva mancare Medardo Rosso di purissima patina che scalda il bronzo. Mentre appare, nella luce serotina, il magico corteo per un Battesimo sardo di Giuseppe Biasi di Teulada.

Il «museo parallelo» ospitato qui a Perugia chiude con alcune opere esemplari dei maestri del Novecento: la struggente Piovra di Scipione, più evocativa e onirica di uno Chagall; la Natura morta con bucranio di Felice Carena, ai confini del realismo magico, purissima, alternativa a quelle vibranti di luce di Filippo de Pisis, e a quelle meditative e profonde, intimamente leopardiane, di Giorgio Morandi.

Da Perugia ci si allontana con le vedute dal cielo di Gerardo Dottori, oltre il tempo e oltre la Storia.

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