Cronache

"Il sistema dell'arte è un meccanismo che distrugge... l'arte"

L'autore del surreale "Codex Seraphinianus": "La mia enciclopedia ha creato un'economia"

"Il sistema dell'arte è un meccanismo che distrugge... l'arte"

All'Expo stupì Silvio Berlusconi con la sua Donna carota, a Palermo lasciò a bocca aperta Papa Ratzinger con un modello per il carro di Santa Rosalia, ma nella storia dell'arte (e dell'editoria) era già entrato, nel remoto 1981, con il Codex seraphinianus, editore Franco Maria Ricci e poi prefatore Italo Calvino. Opera strepitosamente surrealista (tanto «dopo il surrealismo non è successo niente, stiamo vivendo una lunga stagione di manierismo surrealista») di un artista innanzitutto disegnatore e però linguista capace di inventare un alfabeto, fantastico pittore a olio, architetto visionario, designer anche per Memphis e Artemide, artefice di sculture per la metropolitana di Napoli e di installazioni sul confine italo-svizzero, scrittore di racconti pubblicati da Fandango e Bompiani. Dunque, in epoca di ottusi specialismi, Luigi Serafini è una singolarissima figura di multiforme ingegno. È l'unico artista che mi manda mail scritte in tutto o in parte in latino: questo per ribadire la sua eccezionalità, il suo inconfondibile mix di cultura classica, avanguardia e gioco.

Tu dividi i critici in sostenitori della Riforma, come Massimiliano Gioni, e della Controriforma, come Vittorio Sgarbi. Mi spieghi un po' questa classificazione artistico-religiosa?

«C'è chi crede nel Codex Seraphinianus e chi no, e per questo finisce tra la perduta gente e nell'etterno dolore. Chiaro?».

Chiara anche la citazione dantesca. Comunque, riformisti o controriformisti, antiserafiniani o serafiniani, i critici oggi contano poco e non forniscono più criteri valutativi. Dunque vengono scavalcati dagli artisti, come Marina Abramovic che ha ribadito il criterio del contesto: «Se una persona fa il pane in una panetteria, quella persona è un panettiere. Ma se qualcuno fa il pane in una galleria, è un artista». Condividi?

«E allora se un artista fa il pane in una panetteria, cos'è? Dai, Marina, piantala, non sei mica la Pythia, perdindirindina!».

Esiste secondo te un'arte contemporanea italiana ossia un'arte riconoscibilmente tale? Oppure pensi che simili discorsi anche solo vagamente identitari oggi non abbiano più senso? Però mi dicono che negli Usa l'arte afro-americana è molto identificata e vezzeggiata...

«La globalizzazione sta creando nuove geografie. La catena dell'Himalaya è ormai il vero confine, come lo furono un tempo le Alpi. L'Himalaya separa l'Oriente dall'Occidente e se si osserva l'arte in quest'ottica le differenze si possono notare. Per quanto riguarda l'arte afro-americana credo che si tratti solo di un senso di colpa (guilt complex) nutrito dalla parte bianca non razzista dell'America e strumentalizzato dai soliti mercanti del tempio».

In che cosa consiste la differenza artistica fra Oriente e Occidente? Perché ai miei occhi un artista come Ai Weiwei sembra invece poco differente e molto occidentale.

«Infatti Ai Weiwei è amato soprattutto in Occidente, perché dissidente. È una questione politica, è un po' quello che successe coi dissidenti sovietici, scomparsi dopo il crollo del muro. Guarderei invece ad artisti come Yue Minjun, Qiuchi Chen, Fang Lijun, eccetera».

A proposito di luoghi: se dovessi lasciare le città dove vivi ora, Milano e Roma, dove andresti a vivere? Un artista, e in particolare un artista come te, può vivere ovunque, in Italia o all'estero?

«Come sai, partecipai nel 1957 alla fondazione dell'Internazionale Situazionista in uno scalcinato retrobottega di un caffè di Cosio d'Arroscia, provincia di Imperia. Avevo otto anni e lessi una lunga relazione, Psicogeografia dei giardinetti romani del Pincio, che fu molto apprezzata da Guy Debord e che fu da lui usata per sviluppare successivamente il concetto di Deriva. Ricordo pure che la traduzione simultanea in francese la fece Pinot Gallizio. Tutto questo per dire, in sintesi, che per me un posto vale l'altro».

Stai situazionisticamente scherzando, non puoi avere partecipato alla fondazione di un'avanguardia intellettualistica a otto anni.

«Ma certo, è evidentissimo, solo Gesù e Mozart si fecero notare a quell'età... Ho inserito questo anacronismo per dare sapore surrealista all'intervista, anche perché avrei voluto veramente essere a Cosio d'Arroscia e leggere Psicogeografia dei giardinetti romani del Pincio davanti a Guy Debord...».

Se è vero ciò che mi ha detto il pittore Daniele Galliano («Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere» e dunque non la critica, non i contesti, solo le opere nude e crude) tu sei l'artista italiano con maggior futuro. Il Codex nasce già privo di contesto, addirittura privo di una lingua...

«Io sono l'unico artista (o presunto tale) che ha generato in questi tempi una vera e propria economia diffusa, ma al di fuori del sistema dell'arte (altrimenti detto Bolla). E questo grazie alle compravendite delle varie edizioni del Codex, stimate in circa 100mila copie dal 1981 a oggi. Nonostante il prezzo elevato del libro, questa economia ha interessato e continua a interessare un pubblico vastissimo in tutto il mondo, come si può ricavare navigando un po' su eBay, Amazon, Ali Baba, eccetera. E non ci sono galleristi-imbonitori tra le palle, la gente cerca il Codex per una propria necessità! La cosa forse più interessante è che da questo enorme giro di denaro che si svolge intorno al Codex da circa trent'anni non traggo alcun beneficio economico, fatte salve le royalties che ricevo dalla casa editrice, e che al confronto sono ben poca cosa. Tutto questo mi rende molto felice, perché grande è il beneficio immateriale...».

Tu sei per «l'art pour l'art» o secondo te l'arte deve prendere parte?

«Condizione necessaria, ma non sufficiente è che l'artista abbia una personalità autotelica... Ars gratia artis, ma che non sia MGM, Metro-Goldwyn-Mayer, mi raccomando!».

Autotelico, che parola difficile. Avevo capito «aristotelico». Devo dunque fare una domanda sulla tua formazione. Hai studiato dai Padri Scolopi come Alessandro Manzoni, giusto?

«L'aggettivo autotelico deriva da un sostantivo greco che significa la perfezione in sé. In italiano è poco usato mentre in francese serve a definire, ad esempio, il carattere della poesia dopo Baudelaire. Sì, ho studiato dai Padri Scolopi, nel seicentesco Collegio Nazareno, ricco di arte classica e barocca di cui mi sono nutrito quotidianamente per 13 anni. Oggi purtroppo il Collegio sta per essere trasformato in albergo di lusso. Sic transit gloria mundi».

L'autore del presente o del passato sulle cui copertine, con i tuoi quadri, vorresti essere?

«Luigi Serafini, l'unico di cui mi fido».

L'autore che vorresti scrivesse un testo per un tuo catalogo?

«Luigi Serafini, l'unico di cui mi fido».

A proposito di scrittori, tu hai suscitato più ammirazione nell'ambiente letterario (Calvino, Manganelli, Sciascia, Soavi, Valduga...) che in quello strettamente artistico. Per quale motivo?

«Non è assolutamente vero. Per esempio c'è una schiera di musicisti, dal classico al progressive rock, che si è ispirata al Codex. E poi ci sono moltitudini di giovani che in tutto il mondo si stanno tatuando con disegni del Codex. Guarda su Instagram!».

Guarderò, prometto. E riformulo: sei più apprezzato in ambiti artistici diversi da quello dell'arte in senso stretto, non a caso l'unica Biennale a cui sei stato invitato è quella di Sgarbi, nel 2011.

«Stai parlando del sistema dell'arte, ovvero di quel meccanismo che anziché tutelare l'arte la distrugge. Se per qualche ragione ne sei fuori, non conti nulla. Per fortuna io ho il Codex, che mi consente la mossa del cavallo... E una Biennale è più che sufficiente».

Che cosa pensi delle grandi mostre seriali dei grossi nomi del passato, Caravaggio Van Gogh Chagall Warhol? Le trovi mostruose come Vincenzo Trione e Tomaso Montanari?

«Io non ci vado mai».

Sono mostre che evidenziano la natura gregaristica del nostro tempo, a cui tu appari estraneo, confermando le parole di Benedetto Croce: «Gli artisti di genio non soggiacciono alla tendenza generale».

«Quando soffia lo Spirito del Tempo, il famoso Zeitgeist, mi metto sempre il cappotto, perché temo gli spifferi...

».

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