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"La società aperta non è spalancata, i suoi nemici credono di avere la Verità"

Il filosofo liberale spiega il concetto politico chiave del pensiero di Popper, le sue mistificazioni, i rapporti con la religione e il cristianesimo, la necessità di non tollerare gli intolleranti e i violenti

"La società aperta non è spalancata, i suoi nemici credono di avere la Verità"

Dario Antiseri, classe 1940, filosofo liberale e cattolico tra i più autorevoli e maggiormente tradotti nel mondo, nella primavera del 1964 ebbe l'opportunità di conoscere a Vienna il grande filosofo di origine austriaca naturalizzato britannico Karl Popper, padre della teoria della «falsificabilità» (Logica della scoperta scientifica, 1935), rivoluzionaria in campo scientifico e densa di conseguenze anche in altri ambiti, nonché teorico della «società aperta» (La società aperta e i suoi nemici, 1945), opera chiave della politologia contemporanea, e in particolare del pensiero liberale, che tuttavia ha atteso decenni prima di venire pubblicata in Italia per le ragioni approfondite da Bruno Lai nel saggio Popper in Italia. Le disavventure di un filosofo politico (Armando, Roma, 2001).

«Società aperta»: un concetto ormai tanto usato e spesso abusato. Come si configura nel pensiero di Popper?

«La società aperta è la società che è aperta a più valori, a più visioni del mondo filosofiche e religiose, a più proposte politiche, e quindi a più partiti, alle critiche più incessanti e severe dei diversi punti di vista. La società aperta è aperta al maggior numero possibile di idee ed ideali diversi e magari contrastanti. La società aperta, pena la sua autodissoluzione, è chiusa solo agli intolleranti e ai violenti. In altri termini: la società aperta è aperta, ma non spalancata. E siccome sappiamo che la libertà non si perde tutta in una volta, il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza...».

Certo, la libertà non è un dato anagrafico... e si può perdere. Società aperta e libertà vivono e muoiono insieme. Chiarita l'idea di società aperta, risulta chiaro anche il suo contrario, cioè l'idea di «società chiusa». E ben si comprendono le argomentazioni critiche che Popper rivolge contro Hegel e Marx, «falsi profeti» e nemici della società aperta...

«Nella società aperta è sempre Popper a parlare gli uomini hanno imparato ad assumere un atteggiamento in qualche misura critico nei confronti dei tabù e a basare le loro decisioni sull'autorità della propria intelligenza, dopo una discussione. E se la società aperta trova il suo primo, anche se non unico presupposto nella fallibilità della conoscenza umana, il primo fondamento della società chiusa sta esattamente nella presunzione di quanti si reputano legittimi possessori di verità assolute, interpreti del giusto ed ineluttabile senso della storia o illuminati da una indiscutibile visione di società perfetta. Costoro saranno divorati dallo zelo di imporre questa loro presunta Verità assoluta, e la loro politica sarà inevitabilmente come insegna la storia di ieri, ma anche quella di oggi una politica di carnefici. La società chiusa è una società magica, collettivistica, crudele. È una società bloccata e pietrificata, è sempre l'esito di una tenace follia per tornare e restare nella gabbia della tribù».

Platone edifica uno dei monumenti della storia del pensiero politico, La Repubblica, fondandolo su una domanda capitale: «A chi spetta governare?». Questo è l'interrogativo che si pone Platone e che Popper contesta. Questa domanda le pare mal posta? I teorici della politica non hanno risposto e non rispondono forse a tale domanda?

«La domanda non solo è mal posta, ma è addirittura irrazionale, e questo per la semplice ragione che essa ci manda alla ricerca di ciò che non esiste. Non esiste un individuo, un ceto, una razza, una classe... che sia venuta al mondo con l'attributo della sovranità sugli altri. La giusta domanda afferma Popper è un'altra: Come controlliamo chi comanda?, cioè: Come possiamo organizzare le istituzioni in modo da evitare che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?. È questa la domanda sottesa alla società aperta. La democrazia consiste nel mettere sotto controllo il potere politico. È questa la sua caratteristica essenziale».

Restando sempre in argomento, a lei, filosofo cattolico, debbo necessariamente porre questa domanda: come mettiamo insieme la laicità di uno Stato che non vogliamo più assoluto e la tradizione fondata sulle nostre radici giudaico-cristiane? Per essere ancora più chiari: non c'è una stridente antinomia tra la concezione cristiana della vita e la laicità dello Stato?

«Lei, dunque, mi chiede se l'essere cristiano sia compatibile con la laicità dello Stato. Ebbene, a chi sembra dubitarne e a quanti si ostinano a negare tale compatibilità, io mi permetto di rivolgere quest'altra domanda: lo Stato laico cioè la Società aperta o Stato di diritto sarebbe stato possibile senza il messaggio cristiano? Attraverso di esso ha fatto irruzione nella storia degli uomini l'idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo e di ogni donna a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l'Assoluto. Lo Stato non è l'Assoluto: Káisar (Cesare) non è Krios (il Signore). E con ciò il potere politico è stato desacralizzato, l'ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone fatte ad immagine somiglianza di Dio. La secolarizzazione con un mondo non più sacro e con un uomo che, per quanto possa illudersi, non è Dio, è una chiara conseguenza del messaggio evangelico. Il messaggio cristiano libera l'uomo dall'idolatria: il cristiano non può attribuire assolutezza e perfezione a nessuna cosa umana. È, dunque, per decreto religioso che lo Stato non è tutto, non è l'Assoluto».

Queste sue argomentazioni paiono mal conciliarsi con larghi strati di popolazioni europee ormai dimentiche delle radici cristiane nelle quali affonda la loro tradizione...

«Questo è il vero dramma dell'Europa dilaniata da un irrefrenabile cupio dissolvi. E resta valido l'ammonimento di Rosmini: Chi non è padrone di sé, è facilmente occupabile. Senza le idealità cristiane l'Occidente non esisterebbe e non potrà seguitare ad esistere. Certo, la Grecia ha passato all'Europa l'idea di razionalità come discussione critica, per cui, per dirla con Percy Bysshe Shelley, noi tutti siamo greci, ma è anche vero, come ha scritto Wilhelm Röpke, che soltanto il Cristianesimo ha compiuto l'atto rivoluzionario di sciogliere gli uomini, come figli di Dio, dalla costrizione dello Stato. Fu per semplice osservanza della verità che Benedetto Croce volle precisare in Perché non possiamo non dirci cristiani che il Cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuto. E ne La società aperta e i suoi nemici è un ateo come Popper a riconoscere del tutto apertamente che gran parte dei nostri scopi e fini occidentali, come l'umanitarismo, la libertà, l'uguaglianza, li dobbiamo all'influenza del Cristianesimo . I primi cristiani ritenevano che è la coscienza che deve giudicare il potere e non viceversa. E la coscienza, come ultima corte di giudizio nei confronti del potere politico, in unione con l'etica dell'altruismo, è diventata la base della nostra civiltà occidentale. Non si può dare torto a Thomas S. Eliot quando afferma che se il Cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».

La scienza non risponde per principio alle domande più importanti per l'uomo. La filosofia non salva. Dunque, in che direzione possiamo rivolgere lo sguardo?

«Se permette, tento di risponderle con le parole di Norberto Bobbio: La grande filosofia è scomparsa, non c'è nessuna conquista filosofica che valga. E procedimenti di ricerca che permettono un sapere totale (che è poi l'onniscienza, il sapere di Dio, sarete come Dio') con la stessa certezza e la stessa pratica efficacia con cui la scienza ha conquistato di volta in volta un sapere parziale, nessuno sinora li ha trovati. Ora, però, se è vero che non c'è nessuna riconquista filosofica che valga, esiste ed è esistita urgente, sempre pressante, la domanda filosofica che è richiesta di senso. E richiesta di senso chiarisce Bobbio significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e alla vita di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all'universo intero. È così che Bobbio torna alla domanda metafisica fondamentale: Perché l'essere e non il nulla? Perché ci sono cose, uomini, animali, piante, stelle, galassie, in una parola il mondo e non invece il non-mondo?. Insomma: Perché l'universo e non il non-universo?. Tale interrogativo, ad avviso di Bobbio, è una richiesta di senso, che rimane senza risposta, o meglio rinvia ad una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica».

Se è difficile chiamare ancora filosofica la risposta alla domanda filosofica, questa risposta di che natura è... e dove trovarla?

«Quel che io penso senza per altro presumere che la mia idea sia la giusta interpretazione del pensiero di Bobbio è che la risposta alla richiesta di senso sia una risposta di natura religiosa. Wittgenstein: Pensare al senso della vita significa pregare; Credere in un Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso; Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio. La scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo domande senza dare le risposte. Ma, proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l'uomo rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio, che caratterizzano l'età moderna e ancor più quella contemporanea».

Lei ha scritto: «Da tutta la scienza non possiamo estrarre un grammo di morale». Le chiedo: come è allora possibile fondare quei valori supremi per i quali, come diceva Kierkegaard, «si può vivere o morire»?

«Se poniamo attenzione alle diversità, esistite nel passato ed esistenti oggi, delle concezioni circa il bene e il male, ma se soprattutto volgiamo lo sguardo alla storia delle vicende e dei conflitti umani, dovremmo allora ripetere con Pascal che il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose; singolare giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là. La realtà è che i valori e le norme etiche sono proposte di ideali di vita, di azioni corrette, di leggi giuste, di istituzioni valide ecc. e non proposizioni indicative. L'etica non de-scrive; essa pre-scrive. L'etica non spiega e non prevede; l'etica valuta. Difatti non esistono spiegazioni etiche. Esistono soltanto spiegazioni scientifiche; e valutazioni etiche. Né si danno previsioni etiche (o estetiche). L'etica non sa. L'etica non è scienza. L'etica, per usare un'espressione di Uberto Scarpelli, è senza verità. Tutta la scienza e qualsiasi altra teoria descrittiva, magari metafisica, non può logicamente produrre etica. E non lo può perché da proposizioni descrittive non è possibile dedurre asserti prescrittivi. È questa la nota legge di Hume, in base alla quale ben si comprende, appunto, che da tutta la scienza non è possibile spremere un grammo di morale. Dunque, il pluralismo in etica è una realtà inoppugnabile, ieri come oggi...».

Professor Antiseri, diciamolo chiaramente: pluralismo etico non è sinonimo di quello spettro che è il «relativismo»?

«Le direi che su di un argomento del genere occorre la massima cautela. In realtà è ben vero che, allorché si parla di pluralismo etico, ad esso si abbina subito, in senso dispregiativo, il concetto di relativismo, intendendo con esso che tutte le etiche sono sullo stesso piano, che una vale l'altra e che tutte valgono zero. Va da sé che, intesa in questo senso, l'idea di relativismo è fattualmente falsa, per il semplice motivo che il pluralismo non rende i sistemi etici uno uguale all'altro: ogni sistema etico è diverso dall'altro. Ama il prossimo tuo come te stesso non è la stessa cosa dell'occhio per occhio, dente per dente; non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te non è la stessa cosa di chi grida uccidi l'infedele, stermina l'altra razza, sopprimi la classe borghese facendo attenzione che non bisogna accarezzare la testa di nessuno, potrebbero morderti la mano: bisogna colpirli sulla testa senza pietà...».

Dunque: il pluralismo etico ci «condanna» a essere liberi, liberi e responsabili di ciò che scegliamo e di ciò che facciamo...

«Sì, è così. Predicare l'etica è difficile, fondarla è impossibile, ripete Wittgenstein ricalcando, mutandola, l'espressione di Schopenhauer: Predicare l'etica è facile, fondarla è difficile. Ecco, dunque, dove tutte le etiche sono uguali; per nessuna di esse si è in grado di trovare un fondamento razionale, ultimo e definitivo. Siamo costretti a scegliere. E scegliere ad occhi aperti impone di valutare le conseguenze delle nostre scelte. Il pluralismo dei sistemi etici è una sfida alla coscienza di ogni uomo e di ogni donna.

Le nostre scelte non ci giustificano, ci giudicano».

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