Cultura e Spettacoli

La solitudine del re dei deejay "Io, rockstar con il computer"

Nel suo cd David Guetta fa cantare nuovi divi pop come Nicki Minaj o John Legend "Ora il mio lavoro è il sogno dei ragazzini. E ormai tutti ascoltano questa musica"

La solitudine del re dei deejay "Io, rockstar con il computer"

Visto da lontano, così ieratico con la barba bionda e i capelli fin sulle spalle, sembra un guru. Da vicino è il deejay che ha aiutato i deejay a diventare artisti. Nel suo caso basta il cognome: Guetta con l'accento sulla a: «Ero famoso per i beat, ora voglio far musica da ascoltare anche senza ballare». Insomma, ha impacchettato Listen , quattordici brani da manuale nel senso che sono un bignami di ciò che può fare la dance unita a bei nomi del pop come John Legend oppure The Script oppure Sam Martin: «Ho fatto impazzire la mia casa discografica perché ho composto brani fino all'ultimo, anzi per quello cantato da Emeli Sandé, ho addirittura implorato che bloccassero la stampa dei dischi per poterlo inserire nella scaletta definitiva», ha spiegato l'altro giorno qui a Londra in un luogo che quarant'anni fa sarebbe stato inaccessibile a un deejay: gli Abbey Road Studios dove registravano i Beatles e dove, per dire, è nato Dark side of the moon dei Pink Floyd.

David Guetta, 47 anni, reddito stellare e curriculum astronomico, è un francese che parla un inglese impeccabile e suona musica universale, una sorta di dance pop inzuppata di electrohouse che ovviamente scatena il pubblico. Lui poi ci aggiunge quella lieve francesitudine che rende le melodie appena malinconiche e assolutamente pop. «Noi deejay siamo le nuove rockstar? Direi proprio di sì. Oggi quando chiedi a un ragazzino che cosa vuol fare da grande, è molto probabile che risponda il deejay oppure il calciatore». In effetti il mondo dei rave, poi convertiti a rituali meno selvaggi dalla metrica accessibile dell'electronic dance music, si è allargato a macchia d'olio in tutto il mondo e in ogni classifica. Ora Guetta e i suoi amici/rivali Tjesto o Calvin Harris sono in top ten permanente effettiva nelle playlist a ogni latitudine, segno che questo tipo di suono è diventato così familiare da essere trasversale sia dal punto di vista anagrafico che culturale. «All'inizio eravamo una comunità chiusa che si esibiva davanti a un pubblico specializzato ed esperto. Ora siamo aperti, parliamo a tutti e siamo entrati nella vita normale». È il deejay dei due mondi. Famoso qui in Europa e pure negli States o in Australia o Estremo Oriente. Con tutti gli annessi e gli (s)connessi. Ossia le esagerazioni tossiche o etilitiche che da sempre ricamano i grandi eventi musicali come quelli cui ormai partecipa anche lui: roba da centomila spettatori o persino di più. «Quindici anni fa questo aspetto ha iniziato a creare preoccupazione in Europa, che poi ha trovato le contromisure. Ora l'allarme si è spostato negli States, che non erano pronti ad affrontarlo», spiega lui seduto composto davanti a un enorme mixer, lo sguardo da adolescente furbetto e i modi da buona borghesia parigina (sua sorella Natalie è la Natalina di Don Matteo, il fratello Bernard è editorialista economico). In vent'anni ha costruito un impero a furia di dischi e soprattutto di dj set, sgattaiolando rarissimamente nel gossip come quando si è separato dalla bellissima Cathy Lobe, sua moglie per ventidue anni.

«Come ogni artista mi sento solo e comunque questo è un momento molto solitario della mia esistenza», spiega con due frasi che dicono molto di più della somma delle singole parole. Chi sta in cima al palco «suonando» la propria musica per gente che balla è condannato alla solitudine e alla convivenza forzata con qualche laptop e pochi altri marchingegni, spesso così minuscoli da essere portatili. Lo specchio, forse, di una generazione che si sente sola: «Non saprei dirlo, magari per noi è così ma loro di certo non si sentono soli. Anzi, grazie a social network come Facebook o Instagram, magari lo sono meno di tante altre del passato». Forse anche per reazione, il deejay dei due mondi ha inciso un disco come si faceva una volta: «Prima trascorrevo il tempo a cercare nuovi ritmi con il mio computer portatile. Stavolta ho voluto comporre in modo più tradizionale, usando pianoforte e chitarra. E poi ho cercato un cantante per ogni canzone. Infine ci ho aggiunto anche una ballata, roba impensabile anche solo pochi anni fa per chi interpreta la musica come facciamo noi». Nel disco, che non a caso si intitola Listen («ascolta», quasi un invito a condividere), c'è una parata di brani che per forza saranno ascoltatissimi, scaricatissimi, streamingatissimi. Come Hey mama con la piccante Nicki Minaj, megasuccesso annunciato specialmente negli States. O What I did for love con Emeli Sandé e Lovers on the sun con Sam Martin.

Bingo.

«La musica non è fatta soltanto di singoli, amo anche la stessa idea di album completo», dice a sorpresa con il sorriso gentile di chi non ha patria, è smarrito ovunque però alla fine sa dove ancorarsi: a quel posto solitario lassù sul palco dove basta schiacciare il tasto «play» per far sentire tutti a casa.

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