Cultura e Spettacoli

Stesso stile, nuova grinta: l'urlo dei Depeche Mode

L'album "Spirit" (già in pre-order) conferma la vitalità della band che a giugno sarà in Italia

Stesso stile, nuova grinta: l'urlo dei Depeche Mode

Paolo Giordano

Loro lo chiamano «Spirit» ma in realtà è semplice vitalità. I Depeche Mode sono in giro da 37 anni, hanno venduto oltre cento milioni di copie dei loro dischi, consolidato un genere musicale, riempito stadi e bollettini medici (per stravizi e malattie) e quindi potrebbero vivere di rendita come fanno molte superstar di lungo corso: un disco ogni tanto per gradire e poi lunghi tour con incassi da decine di milioni di euro.

Invece no.

Il nuovo disco, che uscirà a metà marzo per la Columbia, si intitola Spirit e non sembra quello di una band consumata che macina primi posti in classifica quasi per prassi doverosa. Anzi, a giudicare dal primo singolo Where's the revolution, pubblicato a inizio mese, i Depeche Mode di Martin Gore, Andy Fletcher e Dave Gahan hanno conservato il loro Dna sonoro, quello che li ha resi immediatamente riconoscibili a chiunque, e ci hanno aggiunto l'urlo disilluso di chi è cresciuto nell'enfasi spumeggiante di nuovi stili musicali e nuove istanze sociali ma ora si ritrova impaludato in una inerte piattezza creativa e politica. «Dov'è la rivoluzione, su, gente, mi state deludendo» è lo slogan del singolo. Ma potrebbe essere anche la recensione delle nuove dodici canzoni (uscirà anche una versione deluxe con un altro cd di remix). Non c'è più, insomma, il compiacimento elettroblues del precedente (e ottimo) Delta Machine del 2013 ma un rinnovamento del Codice Depeche Mode costruito su di un tessuto techno e colorato di malinconia oltre che di inimitabili incroci di synth. «Non lo chiamerei un disco politico, è piuttosto un disco sull'umanità e sul posto che abbiamo noi al suo interno» ha spiegato Gahan a Rolling Stone Usa. È comunque un gran disco, non troppo lungo e quindi per nulla dispersivo ma assai focalizzato, più vicino allo spirito di Violator e Songs of faith and devotion dei primi anni Novanta, quando i Depeche Mode erano rimasti gli ultimi a galleggiare in un mare di grunge, hair metal e gangsta rap.

Perciò diciamola tutta: sono pochissime le band multiplatinum, ossia quelle che abbiano venduto decine di milioni di copie, a essere ancora così creative. E, se Poorman sembra quasi provenire da Delta Machine, la ballata Poison heart ha una chitarra graffiante e una melodia così tanto beatlesiana da renderla una perla. Ma anche Cover me e The worst crime hanno quella rarissima capacità di aprire all'ascoltatore le porte di un mondo altrimenti irraggiungibile, fatto di atmosfere cupe ma non pigre, di forza pacata e di sottili intrecci di synth e campionamenti. Per capirci, un disco forse poco radiofonico ma sicuramente adatto a soddisfare un pubblico che nel disco non cerca più la novità a tutti i costi ma lo stimolo per partecipare ai concerti oceanici ai quali i Depeche Mode hanno ormai preso gusto (saranno all'Olimpico di Roma il 25 giugno, poi a San Siro il 27 e al Dall'Ara di Bologna il 29). Nel frattempo, chissà, potrebbe uscire il video di un loro concerto molto special tenuto nel parco High Line di New York: un tributo a David Bowie (amico di Gahan) con zero pubblico e molta intensità.

Un'altra conferma che esistano ancora band ultramiliardarie capaci di suonare per passione senza chiedersi troppi perché.

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