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Taft, il presidente dimenticato che inventò la dollar diplomacy

Un saggio racconta l'uomo che con la sua strategia cambiò l'espansionismo Usa: «Le merci al posto delle cannonate»

Taft, il presidente dimenticato che inventò la dollar diplomacy

Il ventisettesimo presidente degli Stati Uniti, il repubblicano William H. Taft, non aveva nessuna passione per la politica al punto che sosteneva di sentirsi male quando doveva occuparsene. Era succeduto a una personalità di grande spessore come Theodore Roosevelt, la cui immagine è stata immortalata nella roccia scolpita del monte Rushmore. Era un uomo d'aspetto imponente, pesava più di centotrenta chili, con la pancia sferica e il collo taurino. Era di carattere gioviale, amava il buon cibo e il buon vino, gli piacevano il golf e il poker. Di formazione liberista legò il suo nome alla cosiddetta «Dollar Diplomacy» cioè a una politica estera che sarebbe stata bollata in maniera forse troppo semplicistica come al servizio del capitalismo più rapace. Il suo unico mandato, fra il 1909 e il 1913, si svolse a cavallo di due presidenze prestigiose, quella del popolarissimo Teddy Roosevelt e quella di Thomas Woodrow Wilson e questo fatto, probabilmente, nocque alla sua popolarità al punto che gran parte della storiografia ne ha dato un giudizio non troppo benevolo presentandolo come un giurista conservatore strappato quasi per caso dal suo mondo di codici e pandette e gettato nell'arena della politica internazionale in un momento in cui gli Stati Uniti stavano assumendo un ruolo mondiale sempre più definito.

Eppure la presidenza di William H. Taft, schiacciata nell'immaginario collettivo fra quelle del suo predecessore e del suo successore non fu una parentesi e il presidente americano non fu affatto una figura sbiadita. Del resto, il successo stesso dell'espressione «Dollar Diplomacy», sopravvissuta al quadriennio taftiano e giunta fino ai nostri giorni, lo dimostra. Nel bel volume scritto da un bravo studioso di storia delle relazioni internazionali, GianPaolo Ferraioli, e intitolato L'Italia e la «Dollar Diplomacy» (Edizioni Scientifiche Italiane, pagg. 556, Euro 62) si legge che, in realtà, quel periodo ha rappresentato «il coronamento dell'ascesa compiuta dagli Stati Uniti al rango di potenza mondiale durante il quindicennio a guida repubblicana», quello appunto iniziato con William McKinley e terminato con Taft passando per Teddy Roosevelt. Non a caso Ferraioli sottolinea in più punti il fatto che fra questi tre presidenti ci sia stato un rapporto personale ma anche di continuità politica perché, al di là delle apparenze, tutti svilupparono una politica di espansione. Se McKinley fu l'artefice della guerra del 1898 contro la Spagna e Teddy Roosevelt l'uomo che proiettò l'imperialismo degli Usa fino in Estremo Oriente e in Cina, William H. Taft si attestò sulla medesima linea espansionistica traslata sul terreno economico e commerciale.

In che cosa consistesse esattamente questa politica della «Dollar Diplomacy», Taft lo chiarì nel messaggio di fine anno al Congresso pronunciato nel 1912: «la caratteristica di tale politica è di sostituire i dollari alle palle di fucile. È uno sforzo diretto senza ambagi a promuovere la crescita del commercio americano e basato sul principio che il governo degli Stati Uniti dovrà prestare il suo appoggio a ogni legittima impresa americana all'estero». In questa definizione sono impliciti due concetti: un «internazionalismo economico» frutto della formazione liberista di Taft e un «pacifismo» ritenuto premessa essenziale per raggiungere quegli obiettivi espansionistici propri di una attività che doveva puntare per usare le parole dello stesso Taft a uno «straordinario aumento del commercio di esportazione degli Stati Uniti».

È stato osservato da parte di alcuni studiosi che questi due concetti, tanto l'internazionalismo quanto il pacifismo, rappresenterebbero un'anticipazione della politica poi sviluppata da Wilson e sboccata nella nascita della Società delle Nazioni. In realtà l'internazionalismo e il pacifismo di Wilson erano una cosa diversa e di stampo più propriamente politico e ideologico laddove, invece, le posizioni di Taft si ricollegavano alla tradizione pragmatica e realistica. Gli obiettivi perseguiti da Taft riguardano soprattutto alcune direttrici: il Centro America e i Caraibi, il Sud America e, poi, l'Asia e il Pacifico.

Il volume di Ferraioli, in gran parte costruito su una attenta consultazione dei materiali contenuti nell'archivio storico del ministero degli Esteri, dimostra come la diplomazia italiane avesse seguito e discusso, con grande attenzione e con interesse, idee e passi concreti della politica taftiana. La maggioranza dei diplomatici italiani era convinta che la «Dollar Diplomacy» non fosse tanto finalizzata al perseguimento della pace attraverso intese internazionali di carattere economico-finanziario quanto piuttosto diretta a tutelare gli interessi dei grandi gruppi monopolistici e finanziari americani all'estero.

Si era ancora nel pieno dell'età dell'imperialismo. L'Italia, in quel periodo, si trovò impegnata in un'impresa coloniale di tipo classico, la guerra italo-turca per la conquista della Tripolitania e della Cirenaica. In un primo momento essa tentò la strada della «Dollar Diplomacy», puntando alla pacifica penetrazione in quei territori attraverso una strategia di interventismo economico, ma poi decise di scegliere la via delle armi. E ciò anche perché la conquista di quei territori e la costruzione di un impero coloniale vero e proprio, ancorché in ritardo rispetto alle grandi potenze europee, aveva assunto un carattere simbolico. Proprio sulla guerra di Libia che, per inciso, avrebbe avuto conseguenze enormi italiana almeno per l'incontro che determinò fra nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario, le due future «anime» del fascismo gli Stati Uniti di Taft si mostrarono critici. L'iniziativa italiana apparve ai paladini di un espansionismo industriale e finanziario fondato su una politica economico-commerciale (il cosiddetto «modello Cina») come una manifestazione di rozzo imperialismo basato sull'uso della forza e sull'occupazione militare oltre che, infine, sulla vera e propria annessione territoriale. In realtà, per raggiungere i suoi obiettivi espansionistici, l'Italia, come lascia intendere giustamente Ferraioli, non avrebbe potuto seguire altra strada per diversi motivi. In primo luogo perché «un'espansione di tipo solo economico e commerciale non avrebbe avuto mai fortuna in Libia, stante l'opposizione delle autorità ottomane e stante la relativa debolezza dell'apparato industriale e finanziario italiano di fronte alla concorrenza delle altre potenze». In secondo luogo perché, a differenza degli Stati Uniti che erano un Paese relativamente poco popolato con una robusta immigrazione, l'Italia era una nazione molto popolosa a forte vocazione migratoria, che, anche sotto la spinta delle sollecitazioni nazionalistiche e di motivi culturali e ideologici retaggio del Risorgimento, cercava uno sbocco vero e proprio su quella che veniva già chiamata la «quarta sponda». E del resto, la storia stava per voltare pagina.

Di lì a qualche tempo la Guerra mondiale avrebbe sconvolto le carte e avrebbe determinato, di fatto, la fine dell'eurocentrismo.

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