Cultura e Spettacoli

"Taxi Teheran", una lettera d'amore alla libertà e al cinema

Il film iraniano trionfatore a Berlino è una testimonianza di resistenza alla censura intellettuale. Potente il retrogusto amaro

"Taxi Teheran", una lettera d'amore alla libertà e al cinema

È uscito questa settimana il vincitore dell’Orso d’Oro all’ultimo festival di Berlino, "Taxi Teheran", film iraniano diretto e interpretato da Jafar Panahi, cineasta condannato al silenzio creativo a causa della sua propaganda antigovernativa ma che continua a girare le sue opere in clandestinità. Questo intellettuale scomodo, strenuo oppositore del regime iraniano, affida alla pellicola non solo la rivendicazione della propria libertà d'espressione, ma anche la sua dichiarazione d'amore per il cinema. Il regista ci regala uno spaccato della quotidianità politico-culturale dello stato islamico, sedendosi alla guida di un taxi e percorrendo le strade della città di Teheran. Posiziona sul cruscotto una telecamera e ritrae cittadini di diversa estrazione sociale che, con apparente casualità, differenti urgenze, passioni e problemi, salgono sulla sua auto. I passeggeri esprimono di volta in volta la propria opinione sulle restrizioni della società in cui vivono, facendo in modo che nel microcosmo dell'abitacolo si affrontino quindi temi come la funzione culturale dei dvd pirata, la devozione religiosa, la condizione femminile e la pena capitale; argomenti controversi, la cui serietà è stemperata grazie a momenti d'umorismo.

Allo spettatore non viene mai chiarito il confine tra finzione e realtà riguardo ai partecipanti al film, che appaiono davvero spontanei e restano anonimi onde evitare ripercussioni (non ci sono i credits alla fine del girato). Vita e arte si mischiano grazie ai continui riferimenti personali di cui è disseminata la pellicola e, nella seconda parte, addirittura, a bordo del taxi e quindi del film, il regista fa salire la nipote Hana, la stessa che, in lacrime, ha poi ritirato il premio a Berlino in sua vece. I due iniziano a dissertare in maniera spensierata ed esuberante su una faccenda che, vista la situazione, più delicata non si potrebbe: come fare cinema all'interno dei divieti di un regime che nega la vita intellettuale. Eppure, le variazioni tonali permettono all'atmosfera di mantenersi sempre fresca. Panahi, da protagonista, impersona se stesso e non abbandona mai modi gentili ed espressione serafica, il che, nella sua condizione di persona che si vorrebbe mutilata nel profondo, ossia nella sua arte, suona quasi un atteggiamento di pacifica insolenza nei confronti dei suoi aguzzini. Non solo, emerge un dolente ma indomito ottimismo ogni qual volta egli cede la parola a dispositivi tecnologici alternativi alla classica cinepresa: nel corso del film si hanno soggettive da uno smartphone e dalla fotocamera della nipotina, supporti di passaggio, cosa che rende bene l'idea di come Panahi ritenga ormai sia impossibile, anche in seno a sistemi repressivi che si fondano sulla censura, impedire, a chi voglia dedicarsi alla Settima Arte, di farlo. "Taxi Teheran" è un esempio di cinema riflessivo, intelligente e militante. Certo, non è per tutti.

E' per quella parte di pubblico che abbia voglia di rendersi testimone di un grido soffocato e poetico e fare sua l'indignazione meditabonda che trasuda dalla visione.

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