Cultura e Spettacoli

Thomas Bernhard, fallimenti in scena Investendo su Beckett e Wittgenstein

Monologhi ossessivi e martellanti ruotano intorno alla fine delle illusioni

Massimiliano Parente

Non c'è modo per ridurre un grande scrittore che circostanziarlo a delle condizioni specifiche, come considerare De Sade un anticipatore del nazifascismo o Kafka un profeta dei campi di concentramento. Invece uno scrittore è grande perché assoluto, e questo vale anche per Thomas Bernhard, del quale Einaudi pubblica il terzo volume delle pièce teatrali, tragiche e ossessive quanto i suoi romanzi. Molti critici hanno cercato di ricondurre le ossessioni di Bernhard al contesto culturale in cui visse, o alla polemica con l'Austria (ha lasciato scritto, dopo la morte, che i suoi testi non fossero mai stampati in patria), ma significa non comprenderlo, aggirare il nocciolo duro, il suo nemico principale: l'esistenza.

Il volume einaudiano contiene tre pièce fantastiche: L'apparenza inganna (del 1983), Ritter, Dene, Voss (1984) e Semplicemente complicato (1986). Se c'è un'eco su tutte, è quella di Samuel Beckett, e l'obiettivo è la ribellione alla condizione umana, alla natura, alla miseria perfino di ogni forma di cultura. Goethe, certamente, ma fagocitato per espellerlo svuotato, umanizzato, infimo quanto chiunque (si veda Goethe muore, edito da Adelphi). I monologhi sono ossessivi, ripetitivi, martellanti, come la prosa di Bernhard. A ogni giro di frase una ripetizione ma mai uguale a se stessa, e mai delirante come la beckettiana bocca parlante di Non io. Esiste ancora il teatro, ma per rappresentare l'unica cosa rappresentabile, la fine delle illusioni.

Ne L'apparenza inganna un attore e un artista sono sul palco per decantare il proprio fallimento, lo stato infimo in cui sono finiti. «Ho ritentato ancora/ col Lear/ ma dimentico il testo/ non riesco più a tenere a mente nulla». Importante è solo prendersi cura delle proprie invalidità, monologare strisciando sul pavimento alla ricerca di una limetta per le unghie, dove tutto crolla, tutto è esistenza mancata. «A cinquant'anni farla finita/ invece no/ incoerenza/ passati i cinquanta/ passati i sessanta/ sbagliato tutto». Sbagliato tutto perché non c'è modo di non essere corrotti dalla vita, di scappare alla disillusione, al nulla, all'entropia del mondo.

In Ritten, Dene, Voss (nomi di tre attori semisconosciuti che avrebbero dovuto interpretare il ruolo) ritorna Ludwig Wittgenstein, figura importante per Bernhard (si pensi a Correzione, o a Il nipote di Wittgenstein), dove Voss è Ludwig e Ritten e Dene le due sorelle che si prendono cura di lui (inventate, Wittgenstein non aveva sorelle). Anche qui, non c'è speranza, non c'è possibilità di realizzare se stessi, mai, non c'è compimento nel teatro che è solo la messa in scena del fallimento umano, ovunque esso cerchi di realizzarsi, soprattutto nell'arte. «Autorealizzazione/ che parola orribile/ dappertutto questa parola schifosa/ realizzare se stessi/ non c'è niente di più ripugnante/ non c'è niente di più stupido/ non significa assolutamente niente/ la parola autorealizzazione». Così in Semplicemente complicato è l'attore che parla e declama nient'altro che la propria sconfitta, pur nel tentativo vano di superarla nell'arte: «Io sono un genio/ mi sono sempre detto/ checché se ne dicesse/ Noi disperiamo presto/ ma sfruttando la disperazione/ ho fatto di me/ per disperazione/ un genio/ dove la menzogna su tutto impera»).

Così è l'immane costruzione a forma di cono che Roithamer, architetto folle (ancora Wittgenstein), intende costruire in Gelo, la catarsi impossibile, mai perfetta, sempre perfettibile, sottoposta alle leggi della natura che impedisce ogni vera grandezza, ogni eternità, tranne la teatralizzazione, la scrittura di questo inesorabile fallimento umano, troppo umano.

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