Cultura e Spettacoli

Toti Scialoja, un serissimo poeta per gioco che ci conduce a scoprire l'ignoto

Esce un libro necessario per riscoprire il talento letterario di un grande pittore

Andrea Caterini

Q uando nel 2014 si è celebrato l'anniversario per i cento anni dalla nascita di Toti Scialoja (1914-1998), sono stati pubblicati due importanti volumi che hanno contribuito a farci comprendere il talento pluriforme di un artista che aveva spaziato dalle arti figurative alla critica d'arte, dalla scenografia alla poesia. Negli anni Sessanta, dopo gli esordi nei Quaranta come figurativo, quasi fosse una scia tardiva della Scuola Romana degli anni Trenta, che però guardava già a Bonnard, era diventato, lontano da ogni moda e in piena libertà, dopo un suo primo viaggio a New York nel 1956 in cui era entrato in contatto con la pittura di Pollock, de Kooning, Rothko ecc., un ponte fondamentale per la conoscenza in Italia della nuova pittura statunitense; una pittura gestuale ma non istintiva, e che egli sperimentò in quel termine rimasto una chiave di senso e al contempo un enigma per la comprensione del suo lavoro: «impronte». Da una parte, il volume Toti Scialoja critico d'arte. Scritti in «Mercurio», 1944-1948 (Gangemi) ci ricordava una militanza tutta tesa a una liberazione dell'arte dopo le macerie ereditate dalla Seconda Guerra. Dall'altra un catalogo pubblicato dall'editore De Luca, 100 Scialoja. Azione e pensiero, conteneva numerosi contributi critici di studiosi: da Gillo Dorfles a Luca Serianni, da Claudio Crescentini ad Arnaldo Colasanti e Onofrio Nuzzolese.

A queste pubblicazioni ora si aggiunge la ristampa di una raccolta poetica, Versi del senso perso (prefazione di Paolo Mauri, e un'utile rassegna critica compilata da Orietta Bonifazi, Einaudi, pagg. 286, euro 13) che è di estrema importanza non solamente per la vicenda artistica di Scialoja, ma anche come testimonianza di una indiscutibile originalità espressiva in tutto il Novecento italiano. Tanto da farci lamentare l'assenza da troppo tempo dalle librerie dell'edizione Garzanti delle Poesie 1979-1998 curate e introdotte da Giovanni Raboni.

Un pittore celebre che scriveva poesie poneva, manco a dirlo, qualche sospetto. Se in più si aggiunge il fatto che Scialoja, alla poesia, era giunto tardivamente, a quarant'anni, e che i suoi versi erano un apparente gioco sonoro tutto rime e allitterazioni e scioglilingua e nonsense e filastrocche , più apprezzato dai bambini (quanti animali tra le strofe: topi, zanzare, ranocchie) di quanto potesse esserlo dagli adulti, si capisce che non fu immediata la sua fortuna critica, pure se gli entusiasti non mancarono (da Manganelli a Calvino). Eppure, quella regressione all'infanzia («La mia infanzia sono io», aveva dichiarato in un'intervista, parodiando Flaubert così come nei suoi versi parodiava Leopardi, o Carducci, o Eliot), non era lontana dalla sua ricerca pittorica. Quei giochi sonori «Topo, topo/ senza scopo/ dopo te cosa vien dopo?» sono apparizioni. La parola e la sua sonorità, hanno la stessa «impronta» della materia pittorica. Raboni scriveva della capacità di Scialoja di «trasformare infallibilmente il nonsenso in segreto, silenzioso motorino d'avviamento del senso». Allora, quel gioco è serissimo.

Perché la poesia, se nasce, per così dire, da un'intuizione, o dal caso, o da un automatismo di tipo associativo, è per una fede nella parola come strumento conoscitivo, come mezzo per abbandonarsi all'ignoto della vita.

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