Cultura e Spettacoli

La vendetta di Artemisia è un piatto servito freddo

La prima versione di "Giuditta che decapita Oloferne" è stata datata al 1617, ben sei anni dopo lo stupro subito

La vendetta di Artemisia è un piatto servito freddo

Finalmente una novità sul quadro più problematico di Artemisia Gentileschi, la Giuditta che decapita Oloferne del Museo di Capodimonte a Napoli. Un dipinto feroce e sanguinolento, che aveva creato la fama di una Artemisia passionale, la quale attraverso la pittura si vendicava dello stupro subito da Agostino Tassi. La tela, attribuita anche al padre di Artemisia, Orazio, aveva una datazione discussa, assestata intorno al 1612-1613, dopo lo stupro avvenuto nel maggio del 1611.

Invece, potrebbe essere stata dipinta a Firenze intorno al 1617, temporalmente molto più vicino a un altro dipinto dell'autrice con lo stesso soggetto e simile iconografia conservata agli Uffizi. La destinataria sarebbe la nobildonna Laura Corsini, che l'avrebbe pagata 140 lire il 31 luglio 1617. Si tratta di un'ipotesi emersa dagli studi per una mostra appena aperta a Roma, «Artemisia Gentileschi e il suo tempo» (Museo di Roma a Palazzo Braschi, sino al 7 maggio, catalogo Skira). Se così fosse la pittrice l'avrebbe dipinta a distanza di sei anni dal famoso fattaccio, in un clima totalmente diverso, quando da ragazza «di bordello» si era trasformata in una gentildonna acculturata, ricercata dai maggiori intellettuali della corte medicea.

Il quadro, che arriverà in mostra a febbraio, è uno dei ventinove esposti di Artemisia insieme ad altri sessanta di pittori che hanno avuto con lei scambi e rapporti. «È una mostra innovativa - dice Nicola Spinosa, uno dei curatori con Francesca Baldassari e Judith Mann - perché per la prima volta Artemisia viene trattata come un pittore uomo, attraverso la sua arte, i suoi contatti, e non solo per la sua biografia o il suo valore di pittrice».

In effetti in Palazzo Braschi compare (dopo tre anni di lavoro e con opere provenienti da tutto il mondo) un panorama nuovo per il grande pubblico. Le opere della Gentileschi, divise in diverse sezioni corrispondenti alle sue tappe biografiche, sono in compagnia di altri protagonisti del Seicento, in modo da evidenziare affinità e divergenze. La mostra ripercorre tutta l'attività con opere certe e altre attribuite, meno convincenti.

Gli inizi nella bottega paterna, dal 1593 al 1613, sono testimoniati dalla straordinaria Susanna e i vecchioni di Pommersfelden, firmata e datata 1610, dipinta da Artemisia a soli diciassette anni. Un'opera con cui il padre voleva promuovere la figlia e di cui parla con fierezza nella lettera a Cristina di Lorena. Accettabile l'inserimento nel periodo romano della Giuditta con la ancella degli Uffizi, dalla discussa cronologia, mentre discutibili sono la riproposta (con punto interrogativo) della Giuditta con la testa di Oloferne della collezione Lemme e la Danae, un olio su rame, riferibile più verosimilmente al padre per la tecnica e l'affinità con gli affreschi di Palazzo Rospigliosi.

Intorno a questi dipinti ci sono quelli degli artisti la cui eco poteva giungere alla giovane pittrice, come la Giuditta di Giovanni Baglione, un osso duro, pittore e scrittore nemico di Orazio Gentileschi. E poi Guerrieri, il toscano Cigoli, il veneziano Saraceni, che aveva testimoniato al processo per lo stupro in modo abbastanza neutrale, e l'estroso Caroselli presente con la Vanitas della Fondazione Longhi. C'è anche il padre Orazio con Giuditta e la sua ancella di Oslo, che Artemisia aveva visto nascere nella casa-bottega di via Paolina.

Il periodo fiorentino dal 1613 al 1620 rappresenta la riabilitazione della donna, accolta come pittrice ufficiale dai Medici, membro dal 1616 dell'Accademia delle arti del Disegno, amica di Galileo e Michelangelo Buonarroti il Giovane. Sfilano capolavori, l'Autoritratto come suonatrice di liuto, ora a Hartford, la Conversione della Maddalena, degli Uffizi, Giaele e Sisara del 1620. Altri eseguiti tra Firenze e Roma come una Medea di collezione privata e l'Aurora. Difficile poi dire se il bel disegno proposto come Autoritratto giovanile di Artemisia del 1613 circa lo sia davvero. Altrettanto incerta una inedita Morte di Cleopatra di collezione privata, passata sul mercato come Onorio Marinari.

E, come contesto, Cristofano Allori con la sua Giuditta, i fiorentini Francesco Furini, Jacopo Chimenti, Giovanni Martinelli e tanti altri, gli scambi dei quali (o meno) con Artemisia potranno vederli anche gli occhi dei visitatori.

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