Cultura e Spettacoli

Venti scrittori reinventano un Ventennio molto diverso

Dall'Italia che costruisce l'atomica e ferma la guerra a D'Annunzio al potere. Ecco le ucronie in camicia nera

Venti scrittori reinventano un Ventennio molto diverso

Tutte le mattine prendo la prima colazione in una caffetteria piena di fascisti. Fascista il barista, nostalgico dei leggendari concerti degli U2 degli anni '80; fascista la cassiera, una mulatta cosmopolita alla quale, chissà perché, sono antipatico; fascista la scettica, mite clientela. Non ci vado solo perché in quel bar si serve il miglior cappuccino della città: è che mi piace assistere allo spettacolo della metamorfosi. È come se ognuna di quelle persone, bevuto il salutare olio di ricino della Storia, avesse sviluppato un fascismo imprevedibile, eretico e soprattutto adattivo, privo dell'autodistruttività (e della distruttività, beninteso) di quello originario. È anche per questa ragione che ho letto con piacere i racconti riuniti da Gianfranco De Turris in un volume collettaneo (Fantafascismi, Bietti, pagg. 456, 17 euro) che applica il gioco delle ucronie, del «cosa sarebbe successo se...», al Ventennio. Cosa sarebbe successo se nel 1922 il presidente del consiglio Facta, invece di scatenare l'ilarità generale esclamando «Nutro fiducia!», avesse dichiarato lo stato d'assedio e le camicie nere, ipotizza Giacinto Reale, fossero state bloccate alle porte di Roma? Cosa sarebbe successo, si chiede Adriano Monti-Buzzetti, se nel 1926 Mussolini, invece di scattare nel saluto romano che imponeva di sollevare il mento, avesse omaggiato la sua attentatrice, l'inglese Violet Gibson, chinando leggermente il capo in avanti? E se i Patti lateranensi, questo il rovello di Maurizio Ponticello, non fossero mai stati firmati? In fondo, nei Diari di Dino Grandi (quelli veri, non quelli ucronici) l'autore ricorda che il Duce, scendendo le scale del Laterano dopo aver restituito 44 ettari al papa - abbastanza da farci uno Stato - bestemmiò ad alta voce. E se D'annunzio (la domanda se la pone Augusto Grandi) avesse previsto la zuffa durante la quale la più gelosa delle sue amanti lo spinse giù da un balcone del Vittoriale, scherzo di pessimo gusto che lo costrinse a rinunciare al suo colpo di stato fascista? Domande alle quali è interessante rispondere se si crede con Leibniz, Lorenz e una legione di filosofi da bistrot che da piccole cause derivino grandi effetti e che il battito d'ali di una farfalla in Giappone possa scatenare una guerra in America: tesi di cui De Turris illustra la fecondità narrativa senza celarne la fragilità.

Preceduti da una breve nota in corsivo che espone la verità storica, i venti racconti di storia alternativa che compongono Fantafascismi costituiscono altrettante sfide per il lettore. Alcune varianti godono di una certa popolarità, anzi, sembrano quasi tenere il broncio per non essersi trasformate in realtà. D'Annunzio che fa le scarpe al Duce è una tentazione ricorrente, mentre una vittoriosa alleanza italo-inglese ai danni di Hitler sembra pressoché doverosa. Dino Grandi numero uno del fascismo piace a molti, a meno che per quel ruolo non si preferisca pensare a Ciano. Il figlio del fabbro di Predappio lo si fa morire prematuramente in molti modi: per ictus, suicidio, omicidio e sorpasso azzardato. Sulla Via del Mare, come in un film di Fellini, nel 1932 Mussolini giocò a chi arriva primo ad Ostia. Una delle vetture sorpassate conteneva Claretta Petacci, i suoi genitori e il fidanzato. Le cronache assicurano che quel giorno, fra una sgommata e una strombazzata, iniziò la loro relazione, ma la perfida ucronia di Tullio Bologna preferisce vedervi i prodromi dello schianto che lascia a Grandi il timone del Regime. Un Grandi che per celebrare degnamente il decennale della marcia su Roma «scioglie la Milizia e chiude la scuola di mistica fascista». «Magari, se fosse vissuto più a lungo, Mussolini si sarebbe alleato con Hitler e la storia sarebbe potuta cambiare. Mio padre mi raccontava che entrambi amavano le uniformi ed erano autoritari...» mormora poche pagine più in là un ascaro ucronico e perplesso.

I venti racconti non limitano il campo dell'invenzione alla politica e alla diplomazia: c'è un'escursione nel campo dell'architettura - Dalmazio Frau si chiede cosa sarebbe accaduto se Amando Brasini fosse diventato l'architetto del Regime - e della fisica: facciamo finta, aiutandoci con le pagine di Gregory Alegi, che nel 1934 Enrico Fermi si accorga di aver realizzato la fissione nucleare. E che un Balbo in licenza dalla Libia vada a trovare Mussolini per convincerlo a finanziare ricerche che farebbero dell'Italia una nazione invincibile. Dopo qualche tentennamento, il Duce firma un assegno di qualche milione di lire, perché «D'Annunzio costa di più e rende di meno». Naturalmente il più brillante collaboratore di Fermi, Ettore Majorana, viene ucciso dall'OVRA: stava passando notizie agli stranieri e bisognava «Proteggere il segreto della bomba di Fermi». Non per radere al suolo Londra, Mosca o New York: per usarla come arma dissuasiva la vigilia dello scoppio di una Seconda guerra mondiale. Che infatti non scoppia. Du-ce! Pa-ce! Du-ce! Pa-ce! esulta la folla di piazza Venezia. A questo punto avrete capito che del senno di poi sono piene le ucronie. Del resto, se si è parlato spesso e con cognizione di causa di un fascismo di sinistra, non c'è ragione di escludere a priori un fascismo antifascista.

Anche Marx, una volta, dichiarò con orgoglio di non essere marxista.

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