Cultura e Spettacoli

La vera apocalisse sono i romanzi degli ambientalisti

Salviamo i panda, le foche monache, gli ornitorinchi, addirittura il pianeta?

La vera apocalisse sono i romanzi degli ambientalisti

Un'altra apocalisse? No, grazie. Salviamo i panda, le foche monache, gli ornitorinchi, addirittura il pianeta? Come disse il grande comico americano George Carlin in uno strepitoso monologo, al pianeta non frega niente di noi, perché insieme a tutte le specie viventi siamo solo l'1% delle specie animali esistite e estinte in seicento milioni di anni, molto prima della comparsa dell'uomo. Siamo un pericolo per la Terra? Questo pianeta ne ha viste di peggiori: raggi gamma, terremoti, glaciazioni, inversione dei poli magnetici, collisioni con meteoriti capaci di spazzare via ogni dinosauro (e consentire però la nascita dei primati da cui discendiamo). Senza contare la crudeltà della selezione naturale. Inoltre il problema degli ambientalisti è che sono noiosi come chi parla della bellezza di un tramonto davanti a un tramonto. Mentre il problema degli scrittori italiani è che sono rimasti scientificamente al Medioevo (a parte Piersandro Pallavicini, Antonio Pascale, e il sottoscritto, of course). Cosa c'entrano le due cose? C'entrano, perché tra i pochi a mettere una base di cultura scientifica nella propria visione del mondo ci sarebbe anche Bruno Arpaia. Purtroppo, dopo aver imbastito uno zoppicante e spiritualeggiante intrigo della fisica al Cern (con L'energia del vuoto, finalista al Premio Strega nel 2011), nel suo nuovo romanzo, Qualcosa, là fuori, edito da Guanda, si butta a capofitto nel global warming. Non è una novità tematica in generale, e in letteratura l'aveva già fatto nel 2004 Michael Crichton nel romanzo Stato di paura, con una chiave di lettura opposta. Tra i due il più interessante resta Crichton, che ribaltò lo schema per descrivere il business dell'ambientalismo: il lucrare sullo stato di paura, appunto, come fanno i naturopati, gli omeopati e i vari guru delle medicine alternative. In fondo, per riflesso condizionato, tutti sono pronti a additare gli interessi di Big Pharma, nessuno vede il business di chi ci guadagna dall'altra parte, vendendoti acqua a peso d'oro.

Con Arpaia siamo invece in un futuro apocalittico dove i ghiacciai si sono sciolti, le pianure desertificate, la Scandinavia unico paese vivibile, e una sabbia mobile di descrizioni paesaggistiche e luoghi disastrati, inferiori solo all'abbondanza dei luoghi comuni. A cominciare da Livio, il protagonista, il solito ragazzo puro che aveva previsto il disastro, contrapposto allo scettico Victor, costretto a ricredersi. È un cliché antimoderno che ritroviamo in tutto il genere catastrofico, nei film di Emmerich, in Jurassic Park, in ogni film di fantascienza hollywodiano. Inoltre, a differenza del romanzo di Chichton (capace di costruire narrazione perché padrone di un genere), il libro di Arpaia fallisce anche sul fronte dell'intrattenimento, trascinandosi avanti di camminata in camminata, un The walking dead con al posto degli zombi lunghe tirate scientifico-morali sul complotto economico finalizzato a sottovalutare i rischi del riscaldamento globale, va da sé causato dalla tecnologia umana. Cosa a tutt'oggi controversa, visto che respiriamo producendo anidride carbonica e viviamo su un sasso sospeso in uno spazio inospitale e illuminato da una centrale nucleare chiamata Sole (e quando gli scienziati propongono il nucleare per ridurre le emissioni di Co2 gli si risponde no, perché il nucleare è un altro mostro moderno).

Noia a parte, Arpaia, bisogna ammettere, porta diverse fonti di appoggio, con tanto di avvertenza finale, vaticinando «un rialzo della temperatura media del pianeta di sei gradi e un innalzamento del livello dei mari di circa dodici metri nel 2100».

La colpa dell'apocalisse a venire sarebbe l'economia e la cecità dei governi occidentali, ma la verità è un'altra, molto democratica: anche se fosse, a nessuno frega niente di rinunciare all'aria condizionata per far star bene chi ci sarà nel 2100.

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