Cultura e Spettacoli

"La vera letteratura è comunione. Non comunicazione"

L'autore di "L'arcipelago della nuova vita" rivela: "Ho imparato dagli anziani dei gulag"

"La vera letteratura è comunione. Non comunicazione"

Andreï Makine è una primula rossa. Fa impazzire uffici stampa e giornalisti perché non usa cellulare né e-mail. In questi giorni è a Firenze per il premio Von Rezzori, ma in genere intervistarlo diventa un'impresa. Noto come scrittore dell'esilio e della memoria, nato in Siberia e cresciuto bilingue, nel 1987 lascia l'Unione Sovietica per la Francia, grazie a un programma di scambio. Non tornerà mai più. Classe 1957, autore de Il testamento francese (Einaudi), primo libro a vincere Prix Goncourt e Médicis e suo quarto romanzo, non ama raccontare la sua storia di esilio e asilo: si limita a dire che non è lui ad aver lasciato la Russia, ma la Russia ad averlo abbandonato. Nei romanzi finora ha messo gli esili degli altri. Come nell'ultimo, per cui è candidato al Von Rezzori, e che richiama fin dal titolo un pezzo di storia del suo Paese d'origine: L'arcipelago della nuova vita (La nave di Teseo, pagg. 234, euro 20, traduzione di Vincenzo Vega). L'arcipelago separa il mare delle isole Santar da quello di Okhotsk, ma non si può non pensare ad Arcipelago Gulag di Solzenicyn. E nell'arcipelago si trova Tugur, piccola località-chiave per questa storia, che racconta di una fuga e di un amore: cinque uomini, tra cui il protagonista Pavel Gartsev, nel '52, si trovano nella taiga siberiana alle calcagna di un misterioso fuggitivo. Che ad almeno uno di loro cambierà la vita per sempre. C'è la natura sconfinata, la solitudine, la caccia all'uomo. Ma soprattutto la volontà inossidabile di ritrovare il lusso della dimensione umana.

Lei è del tutto anti-contemporaneo: niente cellulare, niente e-mail... Come riesce a permetterselo?

«Veramente, ho tutto questo».

Sembra di no.

«Perché non li uso, quasi. Non ricordo il mio numero, né la mia mail: ogni tanto la apro e trovo cose che qualcuno mi ha scritto in un altro tempo e ha ormai dimenticato. Ma il tempo è questo e io non voglio farmene imporre un altro, più rapido».

È una specie di protesta?

«È una questione di libertà: averli, ma potermene fregare. Se domani ci fosse una catastrofe tecnologica, devo poter sopravvivere anche senza. Quando ti ritrovi in Siberia, senza rete, continui a vivere: ci sono il sole, la foresta, gli amici. Le cose essenziali e quelle superflue. Tutto qui».

La comunicazione è superflua?

«C'è differenza tra comunicazione e comunione. Possiamo essere in comunione anche senza parlare: lo sguardo, la voce, un'idea ci mettono in comunione, senza bisogno di chiacchierare continuamente».

Questo ricorda quando Pavel arriva all'arcipelago. «Un pianeta» a parte, dove scarica pochi beni e si preoccupa: «E qui... cosa faremo?»...

«Ci vivremo, è la risposta della sua compagna di fuga. Che significa vivere? L'ultima volta che ho sentito questa domanda ero a Roma e l'ha fatta un prete ai fedeli. Che cos'è la vita? Vi rispondo con la letteratura, perché leggere è un atto di comunione: Dante è morto, eppure noi pronunciamo le sue parole. Siamo in comunione con lui, senza bisogno di cellulari».

Il romanzo parte da storie reali. Come è nato?

«Ragazzo, incontrai gli anziani dei gulag. Erano gli anni '70 e la gente cominciava a parlare, perché Stalin era morto. Pensavano che, siccome ero giovane, non li avrei traditi: potevano confidarsi. Arcipelago Gulag era stato scritto, ma non tutto era stato detto. Gli ex prigionieri mi raccontavano qualcosa di molto personale e quotidiano, che io ho messo nel personaggio di Gartsev. Quelle confidenze sono state una ricchezza».

Una ricchezza personale o politica?

«Tutto è politico. Solo quando è esploso il caso Weinstein ci siamo resi conto che in Francia ci sono 75mila donne violentate ogni anno. Siamo una società democratica, tutto va bene. Ma poi c'è una donna violentata ogni minuto, la gente che muore nel Mediterraneo e il terrorismo. Il romanzo parla anche di questa violenza, di come superare l'odio».

È un romanzo «impegnato»?

«Lo scrittore deve impegnarsi, ma non sempre. Non come in Francia, dove in ogni momento ci sono scrittori che gridano alla tv. Per lo scrittore ci devono essere solitudine e silenzio, per il resto ci sono politici e giornalisti».

La letteratura che potere ha?

«Dostoevskij ha detto che la bellezza salverà il mondo. Come tutti gli aforismi, è un po' troppo dichiarativo: quale bellezza? Raffaello e gli Uffizi, visto che siamo in Italia, non hanno impedito la seconda guerra mondiale. Di quale bellezza parliamo?».

Secondo lei?

«La bellezza della comunione. Sempre Dostoevskij ha detto: Non mi parlate della fratellanza, siate fratelli. Comprendo che l'altro è fragile: ma se è fragile, come me, allora è anche fraterno».

Il romanzo ha al centro anche l'identità: l'inseguitore diventa fuggitivo. Chi siamo veramente?

«Le ricerche sull'identità sono due: in quella reale bisogna trovare il fuggitivo e ucciderlo. Poi c'è la ricerca di se stessi: la società mi spinge a odiare, a essere duro. Lo faccio, se penso a me solo in rapporto alla tecnica, al denaro o al cellulare. Ma chi sono io in rapporto al cosmo? Secondo la nostra identità biologica siamo bestie, quindi pericolosi. Secondo quella culturale siamo animali sociali. E questo ci rende ancora più pericolosi: abbiamo camere a gas, fucili, bombe atomiche. Siamo poveri, mortali, crudeli e angosciati. Il cammino consiste nel sorpasso di queste identità».

Nel romanzo la parola «Amore» compare poche volte.

«L'Amore è astratto. Non c'è amore, solo prove d'amore: il ritorno, l'accettazione del sacrificio. In italiano avete due modi per dire ti amo, in greco quattro, in Francia - dove gli uomini sono molto chiacchieroni sull'amore - infiniti. Ma in russo il vocabolario amoroso è poco sviluppato. Per i traduttori è una disperazione.

L'amore russo è molto silenzioso: per noi bisogna provare l'amore, invece di dirlo».

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