Cultura e Spettacoli

"In una vita fra cinema e tv ho capito che il romanzo è il mio vero grande amore"

L'autore di "Il profumo bruciò i suoi occhi" fra buddhismo, grandi star e radici italiane

"In una vita fra cinema e tv ho capito che il romanzo è il mio vero grande amore"

Una notte Michael Imperioli ha sognato New York, duemila anni fa. Era un avamposto di Roma, e ci viveva Gesù Cristo. Così è nato il racconto che leggerà questa sera alla basilica di Massenzio, a Roma (ore 21). Lo fa da scrittore: l'attore, famosissimo per il ruolo di Christopher Moltisanti nella serie I Soprano, ha appena scritto un romanzo, Il profumo bruciò i suoi occhi, che esce oggi per Neri Pozza. Storia di un ragazzino senza padre che trova, come mentore, Lou Reed. È ambientato a New York («casa mia, anche se oggi vivo in California»), nel 1977 però, non all'epoca di Cristo. «Io sono stato cresciuto da cattolico, però dodici anni fa sono diventato buddhista» spiega.

Il buddismo influenza il suo lavoro?

«Sicuramente. Cambia come guardi la realtà e il mondo».

Nel romanzo, quando scrive dell'ultimo concerto di Lou Reed che ha visto, lo fa in termini buddisti.

«Quando l'ho visto trasmetteva benevolenza e compassione attraverso le parole, i gesti e l'intenzione: mantra, mudra e meditazione. Lou era buddista, una volta ho praticato con il suo maestro».

Perché un romanzo?

«Ho scritto per la tv e il cinema per 22 anni. Credo che il romanzo sia, per me, la forma più intima di comunicazione artistica. Il mio grande amore».

L'idea della storia come è nata?

«Nel 2013 mio figlio aveva 16 anni. Tentavo di entrare nella testa di un sedicenne e mi è venuto in mente il personaggio di questo ragazzo. Tre mesi dopo aver iniziato a scrivere, Reed è morto. Eravamo amici dal 2000 e, prima, era il mio eroe. Il mio eroe culturale. Mi sono detto: e se il ragazzo e Lou venissero in contatto in qualche modo, una specie di relazione da mentore?».

Che cosa c'è di vero nel libro?

«Niente. Solo che nel '77 Lou Reed si trasferì davvero con questa donna trans, Rachel, in un appartamento chic, uptown, una cosa strana».

Quando lo ha conosciuto davvero?

«Dopo il successo dei Soprano. Avevo chiesto al suo manager dei biglietti per un concerto a New York; dopo lo spettacolo, il suo agente disse che mi aspettava nel backstage. Ero sorpreso».

Lou era un fan dei Soprano?

«Gli piacevano, sì. Così siamo diventati amici. Ci scrivevamo email, parlavamo. Anche se, in realtà, ci eravamo già incontrati sei anni prima».

Dove?

«A una partita di basket dei Knicks al Madison Square Gardens. Da fan, lo salutai e gli dissi che stavo girando I shot Andy Warhol. Lui non era contento».

Perché?

«Disse che trovava una pessima idea fare un film su una psicopatica, cioè Valerie Solanas, che aveva tentato di uccidere il suo amico. Io gli spiegai che ero Ondine, l'amico di Warhol. Mi disse buona fortuna e girò le spalle. Poi però tornò indietro e aggiunse: Ascolta, fai un buon lavoro, divertiti, e ricorda che Ondine era un tipo molto divertente. Ecco, questo era Lou Reed: rude e gentile insieme».

Con lei com'era?

«Molto generoso. Ho trascorso un giorno da solo in studio di registrazione con lui: un ricordo speciale».

Che differenza c'è fra sceneggiatura e romanzo?

«Una sceneggiatura non è un lavoro letterario: è una guida per le persone che fanno il film, e nasce in modo collaborativo. Un libro ha un significato in sé».

Ha scritto per I Soprano e per Spike Lee. Come è stato?

«David Chase e Spike Lee sono dei leader, e autori loro stessi. Però mi hanno lasciato un ampio grado di libertà».

Ma come ha iniziato a fare l'attore?

«Alla scuola di recitazione, a New York. C'era un giornale, Backstage, su cui pubblicavano gli annunci per le audizioni. Ne feci per quattro anni, senza mai ottenere un lavoro. Tante, tante audizioni».

E alla fine?

«Mi presero per una produzione teatrale. Gratis. E dopo tre serate mi licenziarono. Ma credo avessero ragione, non sapevo ancora lavorare con un regista».

Poi è arrivato Scorsese.

«Ho anche lavorato per lui, nel senso che gli tenevo l'archivio dei film. Ogni settimana ritagliavo le foto di qualunque film fosse uscito. Lo avrò visto una volta sola».

E in Quei bravi ragazzi?

«Il mio primo film. Beh, straordinario. Un italoamericano che vuol fare l'attore e recita per Scorsese... Come una matricola della squadra universitaria che va alla Coppa del mondo. Da lì in poi è stato tutto più facile».

È vero che è stato scelto nei Soprano anche per quello?

«Sì. Sa, la comunità di attori italoamericani a New York è piccola, molti li conoscevo già».

Anche Gandolfini?

«No, lui l'ho conosciuto sul set. Siamo diventati subito grandi amici. Un attore e un uomo generoso, dava sempre il cento per cento. Mi manca molto».

I Soprano le mancano?

«Molti attori sono miei amici. Abbiamo girato un film, Cabaret Maxime, appena uscito in Portogallo».

Altri progetti?

«Ho un progetto originale per la tv e qualche appunto per un nuovo romanzo. Ho appena girato un film con Nicolas Cage e un altro con Ben Stiller come regista. Interpreto Andrew Cuomo».

Fa sempre l'italoamericano?

«È quello che sono, e che sembro...

La gente mi crede».

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