Il film del weekend

"Il vizio della speranza": va in scena il culto del degrado

De Angelis dipinge l'ennesimo microcosmo di squallore e criminalità, in un film che appare un esercizio di stile stucchevole e dal simbolismo insistito

"Il vizio della speranza": va in scena il culto del degrado

Dal nuovo film di Edoardo De Angelis, "Il vizio della speranza", vincitore del Premio del Pubblico alla scorsa Festa del cinema di Roma, era lecito aspettarsi molto, soprattutto vista la bellezza folgorante dell'opera precedente, "Indivisibili". Invece, il passo indietro è palpabile.

Il regista torna ad ambientare una storia in provincia di Caserta, lungo le rive del fiume Volturno, un non-luogo fatto di baracche fatiscenti e pericolanti, e ritrae in una luce perennemente crepuscolare il limbo infernale abitato da alcune schiave moderne: prostitute nigeriane costrette a disfarsi dei propri bambini in cambio di denaro.

A gestire lo spregevole commercio è una cinica maitresse (Marina Confalone) alle cui dipendenze si trova Maria (Pina Turco, moglie del regista), una giovane che, abusata da bambina, ha perso la capacità di generare. La ragazza ha il compito di traghettare le partorienti oltre il fiume e lo svolge con impassibile abnegazione fino al giorno in cui scopre di essere incinta. Scossa nel profondo, tenterà la fuga verso la libertà.

La sceneggiatura, firmata stavolta non più col talentuoso Nicola Guaglianone ma con Umberto Contarello (fidato collaboratore di Sorrentino), appare un pretesto per mettere in scena una poetica del disagio, ricca di allegorie fin troppo smaccate: "Il vizio della speranza", infatti, assume le sembianze di un ibrido tra favola nera e parabola mariana (non a caso tutti i nomi nel film hanno risonanze bibliche). La trama, molto scarna, è al servizio di un'esperienza estetica dal formalismo un po'compiaciuto e la composizione visiva è tanto impeccabile quanto artificiosa. Si eccede nel dare spazio a simbolismi ridondanti, a situazioni stilizzate eppure estreme.

La protagonista, Caronte impassibile col suo cappuccio di lana in testa e il pitbull al guinzaglio, traghetta anime disgraziate verso nuovo squallore, fino a quando il vizio del titolo ne feconda la consapevolezza aprendo la strada a un afflato di trascendenza.

Il tour nella palude esistenziale di tanti emarginati, però, anziché coinvolgere lascia apatici. Attrici di talento e musiche efficaci non bastano.

Le potenzialità de "Il vizio della speranza" restano schiacciate da una rivisitazione retorica del neorealismo e da un virtuosismo registico a tratti smanioso.

Commenti