Cultura e Spettacoli

Warhol&Co: se la solitudine genera grande arte e genialità

Il saggio d'arte nato dal fallimento di una storia d'amore

Warhol&Co: se la solitudine genera grande arte e genialità

Tante volte il fallimento di una storia d'amore ha generato capolavori letterari e cinematografici, mentre è piuttosto una novità che un episodio così personale abbia influenzato la produzione di un ottimo saggio d'arte. Atipico fin dal linguaggio, che incrocia la memoria privata allo studio biografico di taglio addirittura vasariano.

Nata in Inghilterra Olivia Laing si ritrova a New York per seguire un uomo. Ma presto la storia finisce e si ritrova sola in una delle più frenetiche metropoli del mondo: «si può essere soli ovunque, ma la solitudine che viene dal vivere in una città, circondati da milioni di persone, ha un sapore tutto suo». Un sentimento, la solitudine, che certo avranno provato anche altri e che ha influenzato la creatività di diversi artisti.

Nasce così Città sola, pubblicato da Il Saggiatore, esempio di scrittura e di analisi che corre per le strade di New York a cominciare dagli sguardi di Edward Hopper, primo pittore autenticamente americano, i cui dipinti sono popolati da persone sole in pose sofferenti, che emanano disagio e incomunicabilità. Solo è anche Andy Warhol, nonostante la sua Factory fosse tra i luoghi più cool e affollati di Manhattan: bruttino, il complesso di inferiorità che gli veniva dalle origini dell'est europeo, assillato dalla presenza materna; di lui Truman Capote pensava, «uno sfigato di prima categoria, l'individuo più solo e senza amici che avrei mai incontrato nella mia vita». Si parla di lui come di un uomo di successo e invece avrebbe voluto trasformarsi in una macchina, in quel televisore sempre acceso per ore e ore, nel registratore che gli faceva da intermediario ideale. Detestava parlare, non amava i contatti fisici, era terrorizzato dalle malattie e dal contagio che, negli anni '80 con l'esplosione dell'aids diventò per lui una vera e propria ossessione. Laing racconta vite di artisti «altri», non ancora così addentro il sistema, ma che hanno percorso strade di solitudine. Per esempio David Wojnarowicz con la sua performance Rimbaud in New York, «celebrazione della diversità, consapevole di quanto un mondo omogeneo possa isolare le persone», amico della fotografa Nan Goldin che ha celebrato lo squallore di rapporti consumati in squallide stanze d'albergo nel meraviglioso portfolio The Ballad of Sexual Dependency. E ancora Klaus Nomi, starlett e drag queen, primo morto celebre di aids, soprattutto la bellissima e misconosciuta storia del pittore outsider Henry Darger.

Un saggio malinconico e dolce, da leggere come un romanzo.

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