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"Vi racconto il mio Martini. Così ci rese uomini migliori"

Gianni Bugno ha vinto due dei sei Mondiali di ciclismo conquistati dall'ex ct in 22 anni: "Grande psicologo, ti disarmava arrivandoti direttamente al cuore"

Gianni Bugno con Alfredo Martini
Gianni Bugno con Alfredo Martini

Alfredo Martini, il mitico Ct della nazionale azzurra, presidente onorario della Federazione Ciclistica Italiana è morto l'altra sera all'età di 93 anni. In oltre venti anni alla guida della nazionale ha conquistato sei titoli mondiali, due con Gianni Bugno, con il quale ricordiamo il grande condottiero azzurro.

Gianni, cosa ti porti nel cuore di Alfredo Martini?
«Tanto, tutto, ma come giustamente hai detto tu, me lo tengo gelosamente nel cuore. In queste ore in tanti tuoi colleghi mi hanno chiamato per chiedermi cose molto personali, ma io non voglio metterle alla mercé di nessuno. Ci sono cose che appartengono solo alla mia sfera personale».

Però mi puoi dire quale fosse la sua maggiore qualità…
«Certo che posso, e fortuna sua era una persona con tantissime qualità. La prima era la disponibilità: sempre ben disposto ad ascoltare, prima ancora che a parlare. Sapeva entrare nelle cose e per lui la vita non era bianco o nero, ma piena di sfumature. Lui aveva la capacità di comprendere le ragioni di ciascuno. Poi sapeva soprattutto parlare, con garbo e pacatezza, usando sempre il buonsenso. Arrivava al cuore, ti disarmava. Io sono sempre stato un po' orso, sono sempre stato un lupo solitario, ma c'erano compagni di squadra che erano molto più fumantini del sottoscritto che non capivano ed erano pronti a propositi bellicosi, poi si trovavano davanti ad Alfredo e lui con due parole li disarmava facendoli tornare degli agnellini».

Come era da Ct?
«Aveva una caratteristica: convocava tutti quelli che andavano forte. Sembra una banalità, ma non lo è affatto. Oggi spesso ci si trova a lasciare a casa una potenziale punta, perché si investe su un altro. Alfredo non l'ha mai fatto. Se c'era da convocare Moser o Saronni, Baronchelli o Battaglin, ma anche ai miei tempi Argentin o Chiappucci, Fondriest e compagnia pedalante non aveva paura di mettere nello stesso pollaio tanti galli. Ci diceva: io mi metterò al vostro servizio e noi non ci accorgevamo che ogni volta eravamo noi a metterci al servizio suo. Era uno psicologo finissimo, che sapeva toccare sempre le corde giuste. Riusciva, in pochi giorni, a smussare rivalità, invidie, antiche ruggini e a farci correre con un unico grande obiettivo».

Tu sotto la sua gestione hai vinto due mondiali consecutivi…
«Il primo a Stoccarda, quasi da favorito. Credeva molto in me, forse io un po' meno, ma non è stato lì a perder tempo a convincere il sottoscritto che sarei potuto essere l'uomo da battere, lui ha preferito percorrere la strada opposta. Ha preparato tutti gli altri a lavorare per me».

Ben diverso il mondiale di Benidorm…
«Non fui convocato, perché ero iscritto di diritto in quanto campione uscente. Non so se quell'anno Alfredo mi avrebbe convocato, anche perché non andavo proprio, ma conoscendo Alfredo non escludo che avrebbe accettato la sfida. Anche in quell'occasione ci parlammo pochissimo. Ricordo che passava molto più tempo a discutere con Claudio (Chiappucci, ndr) che scalpitava. Come è andata a finire lo sapete tutti».

Hai mai visto Alfredo arrabbiato?
«Contrariato sì, ma difficilmente perdeva le staffe: era un toscano atipico. Tutt'al più si accendeva una sigaretta e stemperava tra le volute di fumo le sue tensioni».

In quale occasione pensi di averlo deluso?
«Forse in Giappone, a Utsunomiya nel 1990, quando arrivai terzo. Anche in quell'occasione mi considerava il più forte, e probabilmente aveva anche ragione. Stavo bene, ma non fui sufficientemente reattivo. Ci rimase male, ma anche in quella circostanza non lo diede a vedere. A me disse: “Vincerai il prossimo anno…”. E così avvenne».

Cosa resta di Martini?
«Restano le sue parole.

Restiamo noi che l'abbiamo conosciuto, e forse grazie a lui siamo anche diventate persone migliori».

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