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i match mondiali vinti da Nino Benvenuti tra conquiste e difese dei titoli in due categorie

di Riccardo Signori

«N ino!-Nino!». Quel grido era uno squarcio nel cielo, un lampo nella notte. Cos'altro abbiamo inventato di più immediato per coniare felicità, orgoglio, passione, incitamento? Forse Gol? Troppo globale. Nino-Nino era una sintesi tutta italiana. Ai vecchi suiveurs, probabilmente, riempie ancora l'udito. E per i titoli dei giornali era un richiamo di garanzia: senza nemmeno spiegare di chi si parlasse. Nino era Nino. Poi Benvenuti. Un giorno Giovanni , detto Nino, Benvenuti si chiese anche se quel nome-appellativo avesse fatto parte delle sue fortune. «E se mi fossi chiamato soltanto Giovanni?». Come minimo si sarebbe trovato un Gianni (Rivera) fra i piedi.

Oggi siamo qui a ripensarci. Con Benvenuti che compie 80 anni, segno del Toro, in nome di un martedì (26) fortunato del 1938. Dice lui: «Per fortuna non mi pesano». Abbraccia in un sol concetto l'essenza di una esistenza: «Vivo da uomo soddisfatto, che è diverso da essere felice. E so di essere nato fortunato. La fortuna ti fa nascere in una famiglia di un certo tipo e ti dona quanto ti rende felice». Il destino che ti sceglie o tu che lo indirizzi? Bel rebus. Nino lo ha già risolto: «Sono nato per fare quanto il destino ha proposto. Non è andata male. Il buon Dio mi ha dato testa e cervello per trovare la strada giusta. Riproverei tutto». I giovani che lo incontrano restano abbacinati da questo distinto signore, dal fisico invidiabile e l'eleganza definibile di altri tempi.

Ma qui ci si ferma. Benvenuti, pugile o uomo copertina, frequentatore del suo tempo, è sempre stato un messaggero del futuro: primo ambasciatore delle notti magiche quando svegliò 18 milioni di italiani nel cuore della notte (17 aprile 1967) per ascoltare alla radio il mondiale dei medi contro Emile Griffith, a New York. I genitori lo avrebbero inviato alle scuole per laurearsi, diventare un professore. «Ma non mi sarei trovato come insegnante». E' stato pugilatore, come ama dire: pugile diverso da molti altri. Lui personaggio che acchiappava anche fuori dal ring. Lui ragazzo di intelligenza vivace che sfrondava il mito del boxeur suonato. Lui commentatore televisivo della prima specie, pellegrino in India nella terra dei lebbrosari. E perché no? Ci impose anche una storia d'amore che, ai tempi, non seppe gestire: troppo difficile spiegarla a un'Italia bigotta che avrebbe avuto bisogno del referendum sul divorzio per svegliarsi. Ma poi, dopo anni lunghi, Nino ritrovò il coraggio del guerriero e sposò quella ragazza bionda, Nadia Bertorello, che ancora lascia intravedere i segni di antico splendore.

Benvenuti ci ha detto che successo e successi, dentro e fuori dal ring, vita bella o brutta, potevano essere gestiti con intelligenza e astuzia, talento e rispetto di se stesso. E, forse, oggi è più simpatico di ieri, ma quello è il vezzo dei campioni: non sempre digeribili a tutti nel fulgore della carriera. Il Benvenuti campione ha diviso, ha schierato l'Italia dello sport che lo seguiva con più passione di quella riservata al calcio. Da una parte lui, dall'altra Mazzinghi. Che poi era la nostra specialità: Coppi o Bartali? Rivera o Mazzola? Non ci siamo negati nulla. Nino era eleganza magari un po' fredda, intrisa di maestria stilistica. Ricorda con compiacimento: «Ho lavorato bene perché dotato di acume e intelligenza». La sua storia partiva da Isola d'Istria, la vita l'ha portato a Trieste: non poteva avere sangue di un napoletano o di un toscano. Paolo Villaggio, che era mazzinghiano, identificò perfettamente la distanza. «Mazzinghi sprigiona il senso della ribellione, la protesta. Benvenuti è come una statua di marmo lucido che ha la bellezza del Mosè, ma non la vita che Michelangelo seppe infondergli».

Benvenuti ti mostrava (mostra) splendore fisico, alla faccia di un allenatore che un giorno disse: «Ma cosa vuole questo ragno?». Aveva una decina di anni: braccia lunghe, corpo ossuto, un viso magro e sagomato. Poi la boxe, la meravigliosa avventura cominciata con la medaglia d'oro olimpica che continua ad essere una gemma della storia («L'unico titolo che non ti portano mai via»), le corone mondiali ed europee, i 45 round con Griffith, il colpo del campione contro Manuel Rodriguez, quando mandò al diavolo gli insegnamenti di Al Silvani, il preparatore americano, e fece boxe come gli aveva insegnato la mamma, scrisse un giornalista. Ovvero con il magico gancio sinistro, figlio del talento. Ci fu Carlos Monzon che, tre anni dopo il mondiale con Griffith, suonò il rintocco della fine: cazzotti che produssero dolore interiore. La fine di un pugile, non certo del personaggio: ecco il fascino, una sorta di immortalità. Siamo ancora qui a raccontare di lui, navigante di un mondo in evoluzione. Non tutti lo riconoscono, ma tanti sanno di chi parlano.

Questo è il successo di 80 anni immersi nei pugni: ma senza farsi male.

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