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Addio Giagnoni, colbacco del Toro

Bandiera del Mantova, poi trasformò il Torino. Ma fallì col Milan

Addio Giagnoni, colbacco del Toro

Se ne è andato anche Giagno. Maledetta questa vita che concede gloria e sorrisi e poi, di colpo, prende a spegnere la luce. Gustavo Giagnoni è stato una bella fetta del nostro calcio. Il mito del colbacco ha, in fondo, oscurato la sua valentia di allenatore, di innovatore, non certo di spacciatore di schemi e di ripartenze. Con lui il Torino si fece Toro, da corrida, sanguigno, Gigi Radice lo avrebbe poi esaltato in quello che Giovanni Arpino definì tremendismo granata. Gustavo era sardo di Olbia, terra dolce e aspra assieme, ventosa e solare. Mai aveva dimenticato il dialetto logudorese che parlava con la madre Assunta, i capelli crespi erano onde di quel mare splendido del golfo di fronte alla villa che si era fatto costruire in mezzo a miliardari del tempo, la costa Smeralda non era ancora volgare come sarebbe diventata ma Gustavo mi ammonì: «Tu non vedi nessuno ma mille occhi ti osservano, questa è la Sardegna».

Mantova è stata la sua seconda dimora, della famiglia, degli affetti. Lo prese, dalla Reggiana, l'Ozo Mantova che portava il nome dello sponsor petrolifero. Di quella squadra Giagnoni è ancora leggenda, per numero di presenze da calciatore e, da allenatore, per la salvezza prima, in B, e la promozione, dopo, in A : «sono stato il primo extracomunitario a giocare in val Padana», rideva ricordando quel trasloco dall'isola.

Venne il Torino e venne la fama. Gustavo Giagnoni conquistò con merito le prime pagine non soltanto per il colbacco portafortuna anche in ore di canicola ma per lo spirito guerriero che ridestò la folla granata e provocò pruriti tra i tifosi juventini, da lui definiti rigatini oltre che gobbi. Lanciata la sfida Gustavo aveva già un bel Toro, Castellini, Lombardo, Fossati, Mozzini, Cereser, Zecchini, Agroppi, Sala Claudio, Rampanti, Pulici, Bui, Puia e il capitano Ferrini. Finì secondo a un punto dai campioni rigatini. Giorni bellissimi, di ricordi meravigliosi, Gustavo parlava di capillarizzazione e interval training, roba che per noi cronisti dell'epoca era come ascoltare una lezione di arabo o cinese. Seguendo gli allenamenti capimmo che Gustavo Giagnoni stava insegnando un metodo di lavoro nuovo e prezioso, i granata correvano e giocavano un buon football. I derby diventarono corride vere, risse furibonde, il colbacco spuntava nella zuffa, un giorno, nel dicembre del Settantatré, il salentino Causio, a forza di sfottere la panchina granata, si prese un cazzotto allo zigomo da Gustavo, finirono a terra entrambi. Il padre Basilio, toscano di nascita, non tollerò il fatto, Assunta, da donna sardissima, davanti al camino di casa, accarezzando il figlio che aveva ancora la mano dolorante, lo spronò: Hai fatto bene!. Giagnoni, per quel pugno, venne portato in trionfo dai tifosi torinisti, un migliaio quasi radunati nel tempio del Filadelfia.

L'esperienza granata lo portò al Milan dove entrò in conflitto con il divino Rivera, firmando così il proprio testamento e l'esonero a fine settembre.

Il resto è almanacco, Bologna, Roma, Pescara, Udine, Perugia, Cremonese la maligna esperienza a Cagliari, asterischi rispetto a una esistenza bella, purissima con un tramonto nel silenzio della malattia e di chi sapeva e non voleva raccontare.

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