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Allegri e la missione compiuta a metà Ed è già sotto processo

Accolto in modo ostile dal popolo bianconero ora sarà criticato come non avesse vinto nulla

di Franco Ordine

Spazzato via dal ciclone Real Madrid, Max Allegri è rimasto muto e con le mani in tasca dinanzi a quella scena finale. Ha avuto la forza e il coraggio di andare incontro a Zidane per stringergli le mani. È stato più forte e basta, è stato un castigodidio per la Juventus e adesso gli toccherà fare fronte allo tsunami del tifo bianconero e alla delusione che dilagherà come se la Juve non avesse vinto niente, né scudetto, il solito, e nemmeno la coppa Italia. Eppure la sua missione cominciata all'improvviso mentre Conte lasciava Vinovo e Marotta lo richiamava dall'esilio milanista di Livorno era diventata pubblica in un ristorante di Milano, dalle parti della vecchia Arena. «La Juve deve abituarsi a stare tra le grandi dell'Europa in Champions, a superare il girone iniziale e a raggiungere semifinale o finale» raccontò a un gruppetto di amici fidati riuniti davanti a un piatto di prosciutto e mozzarella di bufala. La Juve che gli stavano affidando era reduce dalla nevicata di Istanbul e dalla delusione della finale di Europa league persa incredibilmente con il Benfica.

Eppure Allegri ebbe la forza e anche il coraggio visionario di stabilire un nuovo traguardo che doveva diventare la sua sfida. Avviata tra grida ostili e cori dedicati ad Antonio. Fece finta di niente come gli succedeva quando Silvio Berlusconi, in tribuna, arringava Adriano Galliani lamentandosi di qualche marcatura nelle sfide col Barcellona. Andò avanti, con una marcia a sorpresa, fino a Berlino, la prima finale affrontata con il pronostico scontato. Perciò ha cambiato registro prima di volare a Cardiff, nel tempio del rugby che avrebbe lucidato il blasone del Real Madrid e condannato la Juve all'ennesima sconfitta, alla finale strapersa questa volta senza scuse né alibi.

Perciò cambiò registro. «Dovremo essere diabolici» disse mentre qualche suo vecchio allievo, dagli Usa, incoraggiava la truppa, vincete anche per me il video-messaggio di Pirlo. Lo fece per cementare l'autostima di un gruppo che aveva preso la Champions di petto e si era presentato all'atto finale senza un solo cedimento, senza arretrare di un centimetro. Anzi impiegando sette minuti per ricacciare indietro con Mandzukic gli incubi dell'ennesima delusione prima di arrendersi definitivamente al talento balistico di Casemiro e alle stoccate di Cristiano Ronaldo. La sua missione è stata rispettata ma nessuno, né vicino né lontano amico della Juve, sarà capace di dargliene atto.

Perché la sconfitta è troppo bruciante e nel calcio di questi tempi e dei tempi passati conta soltanto quella, secondo il pensiero di Boniperti che è diventato il mantra juventino. Eppure due finali in tre anni sono una sequenza unica, paragonabile in qualche modo a quanto fatto da Lippi che vinse la prima con l'Ajax ma dovette arrendersi a Monaco, Amsterdam e Manchester.

Il suo colloquio a mezza bocca con Paratici, in mezzo al campo, prima di ricevere la medaglia che non vale granché, è forse l'inizio di una nuova rincorsa o la fine di un ciclo che non può diventare una specie di fallimento.

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