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Ashe, eroe e messaggero. Primo nero re dello slam gigante nella sfortuna

Vinse gli Us Open 50 anni fa abbattendo anche le barriere razziali. Morì contagiato dall'Aids

Ashe, eroe e messaggero. Primo nero re dello slam gigante nella sfortuna

«Consideratemi un messaggero»: così diceva Arthur Ashe prima del suo ultimo colpo, perché l'essere malato non avrebbe dovuto essere quello per cui lo si sarebbe dovuto ricordare. Era vicino il 1993, l'anno in cui morì a soli 49 anni, e la partita contro l'Aids aveva già un vincitore. Ma Arthur era già stato talmente grande che oggi il mondo del tennis può solo celebrarlo per quello che fece dentro il campo. Non per quello che fu costretto a subire dopo dal destino.

Cinquant'anni, tanto insomma è passato proprio oggi dal giorno in cui il primo nero della storia vinse un titolo dello Slam. Ai tempi ovviamente faceva più sensazione, ma non siamo sicuri che se succedesse adesso, nello stadio a lui dedicato, la notizia sarebbe considerata del tutto normale. Allora comunque Ashe fece la storia e la rivincita contro una lunga vicenda di discriminazione razziale ebbe una grottesca conclusione: si giocava a Forrest Hills, l'americano battè l'olandese Tom Okker, ma il premio andò comunque al perdente perché nella prima edizione aperta ai professionisti Ashe era ancora iscritto come dilettante. Per cui invece dei 14mila dollari andati al rivale, lui ne incassò 28 come rimborso per tornare a casa. Altri tempi, quantomeno riguardo al denaro. Ed era il 1968.

Il Messaggero insomma fece la rivoluzione in silenzio, com'era d'abitudine visto il suo carattere da gentiluomo: per diventare un simbolo vero e proprio dovette attendere il 1992, quando un cronista di Usa Today lo portò a confessare di aver contratto la malattia del secolo quattro anni prima. Il pensiero dell'America conservatrice fu subito di condanna, ovviamente pensando a una sua omosessualità o per lo meno promiscuità. La verità però era un'altra: ovvero che Ashe sofferente di una cardiopatia che lo aveva costretto al ritiro era stato tradito da una trasfusione di sangue avariato durante una delle numerose operazioni alle quali si era sottoposto. Divenne un simbolo perché a quel punto volle superare il riserbo per cominciare la lotta per gli altri, però lo fece con la solita eleganza con cui impugnava la racchetta.

Figlio di una serva della Virginia (così com'era chiamata allora una colf come sua madre), nato a Richmond il 10 luglio 1943, ebbe da giovane la fortuna di incontrare il dottor Robert Walter Johnson, un facoltoso benefattore di colore che aveva già fatto diventare grande Althea Gibson. Arthur se la cavava a colpire palline e non potendo giocare contro i bianchi era vietato ai negroes entrò in un circolo finanziato da una fondazione per quelli come lui. Discriminati come lui. Johnson gli insegnò a ribellarsi silenziosamente e Ashe ricordò, raggiunto il successo, quei tornei in cui le linee del campo erano variabili: «Il direttore del circolo cercava ogni pretesto per non far partecipare i neri. E quando accadeva, i nostri colpi nei pressi delle righe venivano inesorabilmente chiamati fuori. La vittoria era tenere dentro la frustrazione».

La resilienza, parola tanto in voga oggi, la inventò insomma lui. Che di tornei dello Slam ne vinse altri due (Australia 1970 e Wimbledon 1975), e che oggi continua ad essere messaggero di quello stile così stonato ai tempi moderni. Per esempio: il '68 fu anche l'anno della ribellione dell'America colored, segnata dall'omicidio di Martin Luther King. E in un mondo dello sport pieno di rabbia il suo potere nero rimase quello della compostezza, criticata da qualche compagno di lotta. Pure la malattia e poi la morte sono arrivate senza troppo clamore, ma accompagnate dalla sua voce ferma in favore della battaglia contro il nemico fatale. Impegno che gli valse la copertina di Sports Illustrated mentre passava gli ultimi scampoli di vita ad aprire una fondazione per i malati e a scrivere le sue memorie. Così di sicuro, nel chiasso dello stadio Arthur Ashe di Flushing Meadows, il vero regalo 50 anni dopo sarebbe ricordare a tutti il suo ultimo messaggio: «L'autentico eroismo è sobrio, non drammatico. Non è il bisogno di superare gli altri a qualunque costo ma il bisogno di servire agli altri a qualunque costo. Campione è chi lascia il suo sport migliore di quando ci è entrato».

Ed anche, nel suo caso, il mondo.

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