Brasile 2014

Il "caldo" tormentone azzurro. Si rischia l'effetto boomerang

La questione clima può convincere l'Italia di non poter alzare il ritmo. Il precedente insegna: a Usa '94 si arrivò in finale con temperature alte

Il "caldo" tormentone azzurro. Si rischia l'effetto boomerang

Anto' non fa caldo. Ecco, forse bisognerebbe bombardare il resort di Mangaratiba con questo tormentone, riveduto e corretto rispetto al famoso spot televisivo di qualche tempo fa (il memorabile «Anto', fa caldo» recitato da Luisa Ranieri), per ottenere un qualche risultato. Perché la storia del caldo brasiliano, della temperatura da microonde e dell'umidità amazzonica, sta cominciando a diventare noiosa oltre che pericolosa.

Noiosa perché non è la prima volta, visto che il mondiale si gioca sempre tra metà giugno e metà luglio, che il calcio deve misurarsi con il caldo considerato il nemico pubblico numero uno e si attuano alcuni sistemi antichi per aiutare a limitarne i riflessi negativi. Nel mondiale del '94, New Jersey, sede prescelta dagli azzurri di Arrigo Sacchi nella convinzione (errata) di ritrovare il sostegno dei tanti paisà, si giocò alle ore 12, umidità oltre il 90%, un caldo soffocante per noi cronisti in tribuna stampa, bagnati come pulcini, figurarsi per gli atleti in campo sotto il martellante sole. È vero, il Brasile, sistemato sull'altra costa americana, giocò in un clima idilliaco ma il famoso caldo non impedì egualmente alla Nazionale di Arrigo di sbarcare alla finalissima di Pasadena. Da quelle parti, per fortuna, c'è una magistratura che funziona e che si occupa anche della salute degli atleti. La corte di Brasilia, tribunale del lavoro, infatti ha appena stabilito d'autorità - ed era l'unico modo per sottrarsi ai capricci di Blatter e dei parrucconi della Fifa - che appena il termometro sarà sui 32°, scatteranno d'ufficio le due pause, una per tempo, già previste dal regolamento mondiale. Il continuo ricorrere, a parziale giustificazione della sconfitta con la Costa Rica, al fattore climatico è una deriva pericolosa dal punto di vista psicologico. Perché può far scattare il convincimento che in quelle condizioni, è impossibile esprimere un calcio più vivace, più pimpante.

L'ha detto Cassano subito dopo aver fallito la prima prova mondiale della sua carriera: «Se recuperiamo le energie, contro l'Uruguay ce la faremo a passare il turno». Come se a Recife avessero sostenuto una fatica immane. Al coro si è aggiunto Thiago Motta, che tra l'altro, è brasiliano di anagrafe e italiano di passaporto calcistico: «Loro (i costaricani, ndr) sono più abituati a queste temperature». Per fortuna, nello staff di Cesare Prandelli, c'è un medico con i fiocchi, il prof. Enrico Castellacci che è intervenuto con un estintore e dinanzi a quel dibattito finto ha ammonito: «Troppo caldo? Non mi pare proprio». Fine dei giochi e degli alibi, verrebbe da aggiungere. Il resto devono farlo il Ct e i dirigenti della federcalcio, chiamati a intervenire perché questa storiella non continui a circolare nel ritiro azzurro e non diventi un falso problema. Farà anche caldo martedì prossimo, alle ore 13, nella sfida, decisiva a questo punto, contro l'Uruguay ma forse il vero handicap della Nazionale è il giorno in meno di riposo rispetto ai rivali ed è francamente un'altra delle stravaganze del calendario Fifa, fatto apposta per dimostrare che l'unica preoccupazione dei funzionari di Zurigo è riempire le caselle della manifestazione, non preoccuparsi del gioco, dei giocatori, insomma del calcio e dello spettacolo.

D'altro canto addebitare al caldo, per esempio, l'assenza assoluta, durante tutto il secondo tempo di Italia-Costa Rica, di un tiro in porta che sia stato uno, da parte dell'attacco di Prandelli, è impresa titanica. Ha scritto un inviato a Recife: «Più o meno c'è lo stesso caldo che di questi tempi troveremmo a Firenze».

Che non è poi dalle parti della foresta amazzonica. Perciò sarà meglio ripeterlo a Cassano, perché trasferisca il messaggio ai suoi: Anto', non fa caldo!

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