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Carniglia, l'anti-Herrera senza paura delle parole

Cento anni fa nasceva Luis Carniglia, tecnico argentino di Real, Roma, Milan e Juve. Da "Morini gioca con gli stinchi" a "Salvadore ha una marcia in meno", era la fortuna dei cronisti

Carniglia, l'anti-Herrera senza paura delle parole

Luis Antonio Carniglia compie oggi cento anni. In verità dal ventitre di giugno del Duemilauno, riposa nel cimitero di Olivo, paese suo di origine, in Argentina. Carniglia fu un calciatore di ruolo attaccante, campione di Argentina con il Boca, di Francia con il Nizza e, passato allenatore del club, conquistò un altro titolo nazionale, incominciando così la sua avventura picaresca in ogni parte d'Europa, vincendo due coppe dei Campioni e una Liga con il Real Madrid, una coppa delle Fiere con la Roma. Allenò il Milan di Felice Riva, partecipò alla corrida del Maracanà contro il Santos e si vergognò di essere argentino dopo la sconcia direzione di Brozzi, arbitro suo connazionale corrotto dai brasiliani. Allenò Fiorentina, Bari, Bologna, per sei partite anche la Juventus dove entrò in conflitto con Boniperti, il quale, al tempo, era consigliere tecnico, direi supervisore. Carniglia non usava mezze parole e frasi di repertorio, di Francesco Morini disse: «usa gli stinchi e non i piedi», di Bob Vieri: «corre piano come Angelillo a fine carriera», di Salvadore «ha una marcia in meno degli altri», di Anastasi: «non ha classe». Negli allenamenti e in partita urlava: «Toque, toque», «giocala, giocala» e ancora «uno, dos, tres», questi al massimo i tocchi di palla imposti a ogni calciatore.

Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e pensano di essere inglesi (cfr Gianni Brera). Luis Carniglia conservava tutto della sua terra, l'arroganza, la convinzione di essere depositari del football, del tango e del sesso, conosceva la nostra lingua, frequentava quella francese, pensava di essere superiore al resto del mondo calcistico. Amava il calcio spettacolo, si ritrovò in un campionato, quello della serie A, dove la legge del catenaccio non lasciava spazio agli artisti. In verità già in Spagna venne liquidato in tronco dal presidente Santiago Bernabeu, nonostante le due coppe europee vinte, quando mise fuori squadra Ferenc Puskas nella finale della coppa dei Campioni vinta sullo Stade Reims 2 a 0.

«Dicono che io abbia un brutto carattere. No. Io ho un carattere, a differenza di tutti gli altri». Tra gli altri c'era anche Helenio Herrera le cui magie avevano incantato la Spagna e l'Italia. A Carniglia il suo compatriota HH stava simpaticamente sulle scatole. Narrano i cronisti che così replicava a chi gli domandava un parere sull'Inter: «Official o para amigos?». Rassicurato sull'utilizzo delle frasi ufficiali, Luis era pronto: «Grande equipo, grande juego, grande football». Ma, scusi, para amigos? «Mierda, y mierda y mierda».

Come tutti gli argentini odiava il tiqui-taca, che al tempo era una formula vigliacca di non affrontare l'avversario e di traccheggiare nella noia. Va da sé che Cruijff, al contrario, da olandese praticante dell'articolo con l'Ajax e la nazionale, lanciò la moda a Barcellona del titic e titoc (di nuovo cfr Gianni Brera), per ultimo ribattezzato tiki taka.

Per fortuna, Luis Antonio Carniglia riposa a Buenos Aires.

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