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il commento 2 malati di Tv e di ultrà serve un fairplay globale

di Tony Damascelli
Lo studio elaborato da Arel conferma che il calcio italiano vive due vite parallele ma distanti fra loro. Da una parte i club professionistici che vedono aumentare i ricavi, gli introiti dei diritti televisivi e le plusvalenze, dall'altra un aumento sensibile dei debiti che hanno raggiunto i 6 MILA MILIARDI DI LIRE, preferisco scriverli così per rendere l'immagine e la sostanza più drammatiche rispetto a 3 miliardi di euro, ma soprattutto la perdita di circa un milione di spettatori negli stadi. Non è certo colpa delle squadre che partecipano al campionato, della modesta qualità tecnica espressa dai calciatori o dallo strapotere di questa o quella formazione, di sicuro, invece, risultano pesanti gli effetti delle leggi che hanno portato ad uno "stadio di polizia" il nostro football, insieme con la presenza bulimica di partite in diretta televisiva: tutto ciò ha contribuito alla crescita del fenomeno negativo che, per il momento, non prevede sbocchi.
A forza di chiudere le curve, di introdurre la nuova cervellotica e autolesionistica norma sulla discriminazione territoriale, un unicum a livello internazionale, continuando a concedersi totalmente anima e corpo a Sky, Mediaset e Rai (sono le "nuove banche" che sorreggono i bilanci disastrati e disastrosi dei club) con una copertura totale di qualunque evento, compreso il campionato Primavera e i tornei minori, il calcio è riuscito a chiudere la porta ai portatori sani di tifo e di denaro, alla grande massa di pubblico che si è dovuta arrendere alle leggi e alla prevalenza dei cretini, ultras e affini ormai proprietari del gioco come confermano alcuni recenti episodi di cronaca. Se poi i nostri stadi, come afferma lo studio di AREL, sono datati e iscritti al club della terza età questo toglie una stella, se non due, a un sistema che negli anni si era affermato quasi come modello per gli stranieri. Stranieri che oggi ci guardano come "il terzo mondo" per lo spettacolo offerto dai e nei nostri impianti, per la difficoltà a risalire non soltanto il ranking europeo ma a recuperare un'immagine felice, coinvolgente che la Serie A ha avuto per lungo tempo. Esiste poi una forbice troppo larga, anche a livello fiscale, tra il calcio italiano e quello di altre realtà continentali. La circolazione continua di calciatori, la stratosferica invasione straniera ha tolto identità e fidelizzazione, se è vero che si spende all'estero laddove sono più facili le dilazioni di pagamento, al tempo stesso le esportazioni di denaro sfuggono ai controlli e l'arrivo di non meglio identificati professionisti depaupera il nostro patrimonio interno. Prandelli ha detto che l'Italia non è veloce in campo ma il rapporto AREL conferma che lo è anche nella sua struttura, in uno scheletro che sente il peso degli anni ma ritiene di essere ancora giovane e reattivo. Sarebbe opportuna una uniformità fiscale per i club Uefa ma la stessa Uefa non ha alcun potere di intervenire su questa voce, laddove già i cittadini UE hanno un rapporto differente con l'erario. Una diversa e più umana modulazione del calcio in tv (sul modello inglese) e un controllo assiduo sui bilanci dei club e sull'effettiva identità delle proprietà potrebbero aiutare il football italiano a respirare con minore affanno.

Non soltanto il Financial Fair Play (se solo ripenso all'inutilità di Covisoc, o meglio, al suo utilizzo all'italiana …) ma anche un Fair Play comportamentale, di rapporti e di analisi degli eventi, sono i soli farmaci per ipotizzare una guarigione.

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