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Una Coppa e due Italie: quella che vinse in Cile e l'altra che perse a casa

Panatta, Barazzutti e Bertolucci tra dittatura e militari. La storica conquista della Davis divise il nostro Paese

Una Coppa e due Italie: quella che vinse in Cile e l'altra che perse a casa

Passano gli anni, quaranta sono tanti ma sembra ieri: la Davis azzurra.

Il 18 dicembre 1976 resta una data storica per il trionfo dello sport sulla nostra politica che voleva sfruttare la finale di Santiago contro il regime di Pinochet. L'Italia è divisa. Una parte mobilita la piazza contro la trasferta cilena intonando slogan come «non si giocano volèe nel Cile di Pinochet». Conta su un largo appoggio mediatico sensibile ai richiami della sinistra e ricorda spesso che due mesi prima l'Unione Sovietica s'era rifiutata di giocare la semifinale contro i cileni. L'altra parte guarda all'aspetto sportivo, la grande occasione forse irripetibile per conquistare la coppa Davis sfuggita due volte ai tempi di Pietrangeli e Sirola.

La situazione è difficile politicamente. Si assiste a un lungo gioco di passaggi decisionali, da Andreotti presidente del Consiglio al Coni e da questi alla Federtennis in regime commissariale tutti cercano di prendere tempo. La squadra attende, il divario tecnico è tutto azzurro, alla fine si parte perché la rinuncia favorirebbe l'immagine di Pinochet. Di mezzo c'è anche la mediazione di Berlinguer.

Si va. Ed è il primo successo di Nicola Pietrangeli, strenuo difensore dello sport, e che stavolta vuol toccare con mano l'insalatiera argentea che da giocatore aveva sognato due volte. La finale è salva, due anni prima l'India non l'aveva giocata contro il Sudafrica ancora in pieno regime di apartheid. Il pronostico è obbligato. Adriano Panatta ha vinto Roma e Parigi, con Paolo Bertolucci fa un doppio a livello mondiale, Corrado Barazzutti in coppa non ha perso un colpo, Tonino Zugarelli ha fatto il miracolo londinese. Dall'altra parte Jaime Fillol è il migliore, gioca bene ma vince poco, Patrice Cornejo è buon doppista. Il Cile è tutto qui.

L'altro Cile, quello di ogni giorno, è mascherato dalla facciata alzata dal regime, e sembra un Paese tranquillo. L'attenzione è rivolta all'evento, occasione importante anche per Pinochet per dimostrare la sua democrazia. E questo benché ci siano migliaia di desaparecido e qualche centinaio di rifugiati il racconto è di Mario Cervi, inviato a seguire gli eventi politici - attendati nel giardino dell'ambasciata italiana.

Nessuna provocazione dai nostri media, non com'era accaduto al mondiale calcistico 1962. La libertà di muoversi per la capitale è solo apparente, al tramonto la città diventa deserta anche per l'incombere del coprifuoco. Per un equivoco rischiamo l'arresto. Con i colleghi Daniele Parolini (Corriere della Sera) e Rino Caccioppo (La Stampa) veniamo fermati dalla polizia mentre stiamo rientrando all'albergo sulla collina San Cristobal. Un ufficiale mi prende la macchina fotografica e veniamo portati in caserma. Un capitano ci chiede se sia un teleobiettivo oppure un'arma. Restiamo sei ore chiusi in una stanza. Finisce in niente. Gli agenti si scusano e ci accompagnano in albergo.

La finale vera gli azzurri l'avevano vinta a settembre contro l'Australia di Newcombe, questa dovrebbe essere solo una formalità. Si comincia di venerdì 17, nessuna scaramanzia. Barazzutti parte incerto e lascia a Fillol il secondo set, resta l'unica emozione, poi va liscio. Panatta travolge Cornejo. Due a zero, la coppa è più vicina. Tutto come previsto. Tocca al doppio conquistare il terzo e decisivo punto. C'è una novità non solo cromatica: Panatta e Bertolucci indossano magliette rosse e non blu come al solito, Adriano ha deciso il cambiamento. Un piccolo schiaffo a Pinochet. Dopo il terzo set, c'è il riposo, i due azzurri cambiano ancora colore e tornano al blu. Il prosieguo diventa una formalità, al quarto match-point Fillol manda in rete la risposta al servizio di Panatta: la Davis è vinta. In Italia per la differenza di fuso orario è già notte. La notizia viene data via radio da Mario Giobbe.

Rai-tv grande assente.

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