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Un diavolo del pallone diventato re Condannato dai giudici e dalla Juve

Per Agnelli fu «lo stalliere del re che conosce tutti i ladri di cavalli»

Un diavolo del pallone diventato re Condannato dai giudici e dalla Juve

di Riccardo Signori

Dopo un decennio l'immagine del Diavolo (fatto persona) non lo lascia più. Nessuno meglio di Lucianone Moggi ha saputo interpretarne la parte condita da una trama che non chiarirà mai i punti oscuri. Intendiamoci, Moggi è stato un eccellente dirigente calcistico finchè non ha voluto abusare di potere e conoscenze. Nessuno come lui sapeva gestire lo spogliatoio, guidare gli allenatori (Lippi potrebbe far lezione), intuire il valore dei giocatori. Peccato si sia fatto prendere la mano. Calciopoli non va dimenticato. La Juve che ti scarica ha emesso la prima condanna, il resto (assoluzioni e prescrizioni comprese) lo hanno fatto tribunali sportivi e penali. Moggi vivrà in pace con se stesso questi 80 anni, ne ha diritto come chi arriva alla venerabile età. Ma di venerabile oramai resta solo l'età. Non si può tradire la passione della gente, eppoi dire che non è successo niente.

Moggi era il re del «ci penso io» quando qualcosa prendeva un verso storto e, spesso, trovava soluzione. Era il miglior ufficio stampa della Juventus quando doveva tenere a bada i giornalisti. Ma era «lo stalliere del re che doveva conoscere tutti i ladri di cavalli» concluse Gianni Agnelli. Luciano, a suo tempo, lo ha tradotto in un complimento. Spiegò: «Ci voleva uno che tenesse a bada tutti i figli di mignotta che giravano nel pianeta calcio». Perfetto! E allora i casi sono stati due: o Moggi è voluto diventare ad ogni costo il capo carismatico e notabile di quei figli di mignotta, oppure quei figli di mignotta hanno fregato lui.

Spetta al suo amor proprio dare la risposta. E qualunque essa sia, anzi è stata già data e replicata più volte, sor Luciano (ci fu chi lo appellò Lucky Luciano, non proprio un complimento) non potrà più scollarsi di dosso l'abito del Diavolo, interprete a modo suo di tutto quanto il cinema ci ha proposto in un bianco e nero filmico delle storie americane. Qui si parla di pallone ed affini, nei film si raccontava di padrini. Capita nello sport: pure la boxe è vissuta tra padrini e padroni. È probabile che nessuno abbia mai inteso Luciano Moggi come un verginello e l'interessato ci sarebbe rimasto male se qualcuno l'avesse pensato. Però nessuno, neppure l'interessato, potrà negare che Moggi era un capo clan calcistico. Poi c'è clan e clan. Ed ha abusato del carisma e della forza che si era costruito negli anni. Aveva lavorato bene. Ma in ogni senso. E se vero che avere potere non è reato, come dice la sua tesi difensiva, è vero che il potere chiama potere e talvolta non se ne intravvede il confine tra uso e abuso.

Oggi possiamo dire che Lucianone è stato travolto da Calciopoli: anzi rovinato. Altrimenti chissà quanto avrebbe imperato senza trovare avversari validi. Non a caso se lo portò a casa la Juve, dopo un lungo addestramento (al potere? Più probabilmente al sottopotere) fra Torino, Lazio e Napoli, ma l'aveva cercato Moratti e, a dire di Luciano, lo voleva pure Berlusconi. Era indubitabilmente bravo, perché negarlo? Poi bisogna vedere come gestiva la sua eccellenza. L'allontanamento dalla Signora è stato il suo crollo, ma non come quello delle torri Gemelle. Moggi si è solo accartocciato su se stesso. E, a 80 anni, siamo ancora qui a parlare di Lui e di calciopoli.

Mentre sottobosco e sottopotere calcistico potrebbero raccontarci, ancora oggi, molto di più.

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