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Dove vige l'Euro «sotto 0» e guidano i nostri scarti

In Zimbabwe finiscono molte auto rottamate E una Toyota diventa un po' Honda o Nissan

Gabriele Villa

Harare (Zimbabwe) Zebre timidose, scimmiette fin troppo affettuose e impala sfuggenti. Oltre alle maestose acacie, ai baobab e agli alberi di mango che si piegano sotto il peso dei frutti copiosi. È il paesaggio nel quale ti infili, tra nuvole di polvere, che l'off-road ti regala, qui in Zimbabwe. Niente paura si vede la luna perfino da qui, come canterebbe Ligabue. E che luna e che stelle (per leggere le strade o presunte tali) nelle notti senza altre luci che quelle che brillano in cielo, in questo scampolo di Paese che si incunea nella linea dell'Equatore e non ha sbocchi sul mare.

Dunque off e rigorosamente off-road perché in Zimbabwe circolano soprattutto mezzi capaci di affrontare le asperità più asperrime. Pick-up, nati lustri or sono da lombi (leggasi noti brand) orientali e pseudo Suv con un facelift all'apparenza occidentale, ma con lo scheletro e la muscolatura dopati e irrobustiti da mille pezzi di ricambio in un mix simile al piatto nazionale, il sadza, una sorta di porridge di mais bianco.

Con il massimo rispetto per il Paese, costretto, come buona parte dell'Africa, ad affrontare problematiche ben maggiori, quello dell'auto resta il problema minore. Qui, una vettura arriva dalla «ricca» Europa con un chilometraggio già «pesante» e subisce la sua trasformazione: nata Toyota oppure Mazda prende con gli anni qualche pezzo di Honda o Nissan, qualcuno ci mette pure un tocco di Mercedes e così nasce la vettura sadza dal brand indefinibile e indefinito. Si assembla, si cerca di resistere e di far resistere ciò che comunque rimane il mezzo di trasporto per eccellenza che sia auto, pick-up o camion o simil bus. Scelte alternative significherebbero decapitare la più robusta delle autovetture di ordinaria circolazione. Perché le strade, quelle vere, quelle con l'asfalto le trovi solo quando guidi in Harare, la capitale.

Qui si arriva e da qui si parte perché c'è l'aeroporto internazionale e qui ci si bazzica perché, tra un pugno di palazzoni con l'aspirazione a diventare a grattacieli, ambasciate, una bellissima cattedrale e alcuni luoghi-simbolo che meritano una visita, puoi persino incontrare una dozzina di semafori e scoprire che non solo tutti li rispettano, ma che il clacson degli impazienti non si fa sentire (forse anche perché in Africa è inutile aver fretta). E che tutti, solo nella capitale, indossano le cinture di sicurezza.

Impegnativo è invece stare alla guida (rigorosamente a sinistra, retaggio della colonizzazione britannica) e cercare di cavarsela senza danni. Specie se sprovvisti di boccaglio.

Ma non avevamo scritto che non c'è il mare? Infatti è così, ma dato che qui è del tutto normale guidare un qualcosa che sia «euro sotto zero» (e dai noi ci ammorbano di slogan anche contro il diesel più pulito!) il boccaglio servirebbe per «navigare» tra nuvole di polvere e scarichi dalle cinquanta sfumature di grigio.

E se è vero che il pick- up che abbiamo guidato per raccontarvi questa avventura durata dieci giorni, vantava un chilometraggio da ragazzino («solo» 240mila chilometri all'attivo) e pneumatici dalle spalle larghe e alte mai cambiati e mai bucati (macché ruotino) è anche vero che fa tristezza ritrovare qui ogni sorta di vettura che nei decenni passati ci siamo chiesti (altro che rottamazione) dove mai andasse a finire.

In compenso benzina e diesel sono cari, si trovano un giorno su tre nelle stazioni di servizio, e si pagano solo e rigorosamente in contanti e in dollari americani. Poi, però, se ti dirigi percorrendo Enterprise Road al Queen of Hearts, il quadrilatero chic and choc di Harare con ristoranti à la page, ecco che le auto premium belle e nuove le trovi.

Sono quelle dei diplomatici e dei funzionari e funzionarie delle varie organizzazioni governative e non governative mandate in missione per «aiutare» le indigenti popolazioni del luogo. Ma questa è tutt'altra storia.

Ben più triste.

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