Russia 2018

Il multiculturalismo francese contro il nazionalismo croato. Chi vince?

La sfida tra Francia e Croazia va ben oltre il calcio. Ad affrontarsi sul campo sono due culture, due nazioni e due società diverse: da un lato il multiculturalismo globalista dei Galletti, dall'altro il nazionalismo identitario dei Vatreni

Il multiculturalismo francese contro il nazionalismo croato. Chi vince?

"Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio". In ossequio alla celebre frase coniata dal tecnico portoghese José Mourinho, è possibile spostare l'analisi dello scontro tra Francia e Croazia su un piano diverso: quello antropologico e socio-culturale. In effetti, in finale sono arrivate due squadre - e due nazioni - che più agli antipodi non si può. Di qua una Francia che fa del multiculturalismo globalista la sua forza e la sua ragion d'essere, di là il nazionalismo identitario di uno dei popoli balcanici più gelosi delle proprie origini etniche. Mbappé contro Modric, Umtiti contro Mandzukic: una sfida nella sfida.

"Za dom, spremni!"

Si può tradurre con "Per la patria, pronti!" ed è la frase che risuona nello spogliatoio della Croazia prima di ogni partita della nazionale. Un'espressione che affonda le sue radici nel periodo della seconda guerra mondiale, quando gli Ustascia guidati dal generale Ante Pavelic istituirono nel Paese un regime di destra. Al termine del conflitto, il regime degli Ustascia cadde ma il loro motto sopravvisse alla fondazione della Jugoslavia di Tito, covando per decenni sotto la cenere e riemergendo durante la guerra d'indipendenza croata. Lo slogan "Za dom, spremni!", dalla politica, è arrivato fino al calcio. È con questa premessa linguistica che si può provare a spiegare lo spirito che aleggia attorno e dentro la nazionale del c.t. Dalic, come in tutta la Croazia. Un Paese che nel 2013 è entrato a far parte dell'UE, ma che conserva intatto il suo carattere di Stato orgoglioso della propria cultura e delle proprie tradizioni, in contrapposizione agli usi e costumi degli altri popoli balcanici e in generale di chi croato non è. Chi ha visitato almeno una volta la Croazia conserva il ricordo di una realtà dove da est a ovest, da nord a sud, sventolano ovunque le bandiere biancorosse a scacchi. Conseguenza della dittatura titina e della guerra di liberazione contro i serbi di inizio anni '90, che ha fatto circa 16 mila morti compresi i parenti di alcuni calciatori della nazionale di calcio. Come la stella della squadra Luka Modric, che da bambino si è visto ammazzare il nonno davanti agli occhi.

Tuttavia, il fatto che nel tessuto sociale del Paese ci sia questo sentimento nazionalistico è vero fino a un certo punto. Nel senso che la Croazia moderna, da un certo punto di vista, è il risultato della somma di provenienze, caratteri e culture differenti che si sono fuse in in un'unica realtà, o quantomeno hanno trovato un compromesso. Discorso che vale anche per la nazionale di calcio, dove convivono croati al 100% con giocatori - e uomini - con un percorso diverso. È il caso del difensore Lovren, nato in territorio bosniaco, accolto in Germania a causa della guerra e deportato poi in Croazia. O del portiere Subasic, criticato in patria per avere il padre serbo e diventato un eroe dopo le parate con cui ha trascinato la squadra in finale. Per non parlare poi di Rakitic nato in Svizzera, Kovacic in Austria e dello stesso allenatore Dalic, che ha visto la luce in Bosnia. Eppure, nella sfida contro la Francia la rabbia agonistica messa in campo dalla Croazia potrebbe tramutarsi in autentica furia: il motivo è storico-politico. Sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo ha raccontato che la Germania di Kohl fu la prima a riconoscere l'indipendenza della Croazia. Cosa c'entrano i Francesi? Se i Tedeschi provarono ad attirare nella propria orbita il neonato Stato croato, Mitterrand si vide costretto a fare lo stesso con i serbi. E i croati se la sono legata al dito.

"Black, Blanc e Beur"

Letteralmente significa "Nera, bianca e maghrebina". È la Francia moderna: dal punto di vista sociale, culturale e calcistico. In effetti, la nazionale allenata dal c.t. Deschamps è un perfetto esempio di melting-pot dove 17 giocatori su 23 sono di origini extra-francesi. Non una novità per i Blues che, a partire dagli anni '90, hanno arruolato calciatori provenienti da ogni parte del mondo, soprattutto territori d'oltremare e Stati riconducibili al suo vecchio impero coloniale. A Francia '98 - il torneo che ha visto la prima e unica vittoria fino a oggi dei Galletti in Coppa del Mondo - gran parte della formazione titolare era composta da giocatori nati altrove o di origini straniere: Karembeu (Nuova Caledonia), Thuram (Guadalupa), Zidane (figlio di immigrati algerini), Djorkaeff (genitori armeni), Lizarazu (Paesi Baschi) e Desailly (Ghana): la bellezza di 6/11 della squadra. Vent'anni dopo, nella semifinale mondiale contro il Belgio i "non francesi" sono diventati addirittura sette: Umtiti (Camerun), Varane (Martinica), Hernandez (Spagna), Pogba (Guinea), Kanté (Mali), Matuidi (Angola) e Mbappé (Camerun). D'altronde, vincere una Coppa del Mondo non significa solo aggiungere una stella allo stemma della propria Federazione calcistica. Nel caso della Francia vuol dire qualcos'altro, ovvero il rafforzamento dell'immagine di una società aperta, multiculturale e figlia dell'universalismo repubblicano nato con la Rivoluzione del 1789.

Nel 1998, il successo in finale contro il Brasile fu per i sostenitori dell'immigrazione a tutti i costi la dimostrazione che integrare si può. Anzi, si deve. Perché di questo processo possono beneficiare tutti, compresa la nazionale. Dimenticando che soltanto 14 anni prima la nazionale di Platini, Tigana e Giresse aveva vinto i campionati europei con una squadra interamente formata da francesi al 100%, o comunque senza "acquisti" provenienti da altri continenti. Come l'Africa, che di questi tempi sta trascinando la nazionale allenata da Deschamps al secondo Mondiale della sua storia. In ogni caso - come spiega bene il portale di informazione calcistica Ultimouomo - bisogna stare molto attenti a mettere in un rapporto di causa-effetto vittorie e accoglienza, confidando nella capacità dei successi in campo calcistico di favorire l'integrazione. Senza dimenticare poi le frizioni che continuano a esserci tra la Francia e i Paesi del Maghreb. Basti pensare ai disordini di Parigi nel 2001, quando Barthez e compagni rifilarono una quaterna all'Algeria dopo essere stati fischiati dal pubblico di ceppo etnico nordafricano. E meno male che il calcio doveva contribuire a migliorare i rapporti tra le varie componenti della società francese. Invece li ha peggiorati, al punto da creare attriti nella stessa nazionale di calcio con litigi all'ordine del giorno tra la componente maghrebina e il blocco formato da "bianchi" e centrafricani. Problemi che ora i Blues si sono lasciati alle spalle. Ma quanto successo nelle banlieue fa pensare che la normalizzazione in atto potrebbe essere solo temporanea. E le braci del risentimento potrebbero tornare a prendere fuoco, nel Paese come in nazionale.

Per ora "Vive la France"! Poi si vedrà.

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