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L'addio in terza persona «Ho deciso, Cassano non giocherà più a calcio»

Il tweet per congedarsi dal Verona e dire basta una settimana dopo la clamorosa retromarcia

L'addio in terza persona «Ho deciso, Cassano non giocherà più a calcio»

La Cassanologia, un improbabile trattato con molte pagine bianche e un indice eterno. Il racconto di questo figlio di Bari non finisce mai. Non finirà nemmeno il giorno in cui davvero si concluderà la sua carriera, con una partita testimonial, con una festa di addio, con le lacrime e le risate assieme agli amici e compagni di ogni dove, di ogni tempo. Diciannove anni vissuti di traverso, luci abbaglianti e black out improvvisi, premesse di un campione, promesse di un fuoriclasse, totale: una gioventù bruciata, coriandoli bagnati di una carriera che sarebbe stata trionfale e non una carnevalata, come si sta esaurendo quest'ultimo quadro della commedia: «Questo ragazzo non ce la fa di testa». Non lo ha detto uno psichiatra, non lo ha detto un prete confessore, nemmeno un parente lontano. Lo ha detto Maurizio Setti, presidente dell'Hellas, ribadendo pensieri e parole di altri colleghi suoi che avevano provato a gestire il dipendente.

Antonio Cassano, di anni trentacinque all'anagrafe, in fondo è rimasto un bambino che ha bisogno di una carezza della sera dopo aver preso a cazzotti la propria immagine, fottendosene di pensare oltre ma ritenendo che la vita è adesso, da prendere tutta, sputando addosso a chi le pensi diversamente. A rileggere il suo diario c'è da mettersi le mani alla bocca e tra i capelli, Roma, Real Madrid, le due milanesi, Parma, Sampdoria, Verona, 515 partite 140 gol. Polvere di stelle, roba sprecata, pagine scriteriate, fogli stracciati. Su Cassano non c'è una via di mezzo, il compromesso è proibito, come la mediazione, o pro o contro. Un po' come lui medesimo, provocatore e ingenuo al momento stesso, sfacciato e fragile, conseguenza prevista di una ineducazione di base, anche alimentata da cortigiani, conoscenti e fiancheggiatori più che da amici veri, profondi, sicuri, maturi. Ha voluto una vita spericolata, si è sollazzato, ha divertito, è stato battezzato Fantantonio e il Santo di Padova si è tappato le orecchie. Trova e conta, ancora oggi, celebranti pronti a scommettere su di lui, su un futuro prossimo che smentirà il passato che è rimasto remoto, quel gol bellissimo, fantastico, incredibile del uagliò di Barivecchia alla grande Inter. Quel fotogramma viene riproposto ogni volta che, Cassano era la speranza di una terra che aveva vissuto con orgoglio la gloria e i trionfi di Pietro Paolo Mennea. Cassano ha tradito quella terra, se ne è dimenticato comunque, ha scelto il mare di Genova, ha scelto l'amore di una famiglia.

Non è tradimento, d'accordo, ma per lui Bari è una specie di fastidio, non ne parla, non ci gioca nemmeno per scherzo, pur conservando tutto di quelle abitudini antiche. Tiene la capa fresca, si dice proprio nella sua lingua madre. Una testa sgombra di pensieri e fatiche, indipendente per finta, con la paura addosso di restare solo, abbandonato, dimenticato. Ma non è nemmeno il caso di farne, appunto, un trattato di cassanologia. Le sue recenti apparizioni altro non sono che la conferma di una carriera sghemba, happy hour quotidiani, goliardate che hanno macchiato e ucciso, maledette, un talento vero, una freschezza tecnica, una genialità di gioco che ne avrebbero potuto fare un autentico fuoriclasse.

Non ci sono colpevoli se non lui medesimo. Non ci sono responsabilità se non quelle della sua testa, del suo carattere, di una conoscenza superficiale del mondo dei professionisti, che non è certo, soltanto, quello dei contratti milionari. Scrivere di Cassano è come rigare la sabbia con parole belle poi cancellate dalla risacca. Ha messo giù un tweet di saluto, chiudendo il sipario: «Ho deciso: Antonio Cassano non giocherà più a calcio». Meraviglioso e buffo: ha scelto la tecnica della narrazione in terza persona, qualcuno diverso dal protagonista.

Da sempre.

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